cultura del saper fare

La crisi economica induce a ripensare un modello economico fondato esclusivamente sul profitto e su una concezione individualistica che, del vivere associato. Negli ultimi decenni l’economia ha svolto infatti un ruolo che è andato molto oltre il suo ambito di competenza, divenendo un vero e proprio modello culturale di riferimento.

Un clima culturale che si potrebbe definire la “cultura del saper fare”, idealmente contrapposta alla “cultura dell’utile”

Come spesso accade in tempi di crisi, le difficoltà possono facilmente trasformarsi in opportunità di cambiamento oppure possono condurre a ripetere nel tempo gli stessi errori che la crisi ha prodotto. È in questo frangente che dobbiamo esprimere il  potenziale innovatore - infatti a un clima culturale che si dovrebbe definire “cultura del saper fare”, si contrappone la “cultura dell’utile”.

Cosa accomuna tra loro un artigiano, un imprenditore, un medico e un buon cittadino? 

L’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno.Il termine maestria rende bene questa attitudine: “la maestria” designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso. E copre una fascia ben più ampia di quella del lavoro manuale specializzato; giova al programmatore informatico, al medico e all’artista; anche la nostra attività di genitori migliora, se è praticata come un ‘mestiere’ specializzato, e così pure la nostra partecipazione di cittadini” Dedizione e maestria hanno a che fare con il “prendersi cura” delle cose, delle persone e del bene comune.

Se si volessero individuare le implicazioni di una “cultura del saper fare” in termini di applicazione, si potrebbe dire che essa soddisfa tre bisogni, spesso trascurati all’interno delle società contemporanee, ma non per questo meno sentiti:

1) la partecipazione nella sua duplice accezione di “prendere parte” e “sentirsi parte”;

2) la possibilità di verificare i risultati delle proprie azioni;

3) la responsabilità, intesa anche come gratificazione derivante dal merito.

Con questi valori s’impara a misurarsi con le responsabilità e con il rischio di sbagliare. Ritorna in questo caso la “cultura del saper fare” propria dell’artigiano e soprattutto il fatto che l’esercizio della cittadinanza si apprenda attraverso la pratica quotidiana. L’esercizio dei diritti/doveri di cittadinanza è esso stesso un “saper fare” che trova il suo fondamento in un codice relazionale che unisce tra loro cittadini e istituzioni.

Il riferimento all’uomo artigiano riconduce inevitabilmente all’interno delle dinamiche del mondo imprenditoriale. Al di là delle analisi macro economiche, ciò che spaventa di più della crisi attuale è che essa inneschi una corsa al ribasso, a fronte dei tanti richiami all’eccellenza e alla qualità che vengono dagli esperti e da parte del mondo imprenditoriale.

Il mondo delle Pmi (imprese da 1 a 25 addetti) è depositario di un patrimonio di valori. . L’idea di fondo è che alla base delle attività imprenditoriali ci sia uno slancio che non può essere ricondotto solo alla logica del profitto. Secondo questa ipotesi la competitività delle Pmi deve essere collocata all’interno di una visione che si esprime in due dimensioni tra loro complementari: la prima consiste nella valorizzazione delle persone che guidano l’impresa e che vi lavorano apportandovi i loro ideali, legami e sistemi relazionali; la seconda guarda ai rapporti dell’impresa con l’esterno e alla sua capacità di fare rete.

Resta il fatto che il sistema imprenditoriale italiano è depositario di una cultura del “saper fare” che attraversa trasversalmente le grandi e le piccole imprese e che è attualmente messa in discussione dalla concorrenza con manodopera non specializzata, destinata alla grande produzione di massa e spesso estranea ad ogni forma di cultura d’impresa.

In Europa le Pmi costituiscono il 99 percento del totale delle imprese, il 9 percento delle quali si colloca nella fascia delle micro imprese (1-9 addetti). In Italia sono oltre 4 milioni, anche in questo caso concentrate nelle micro imprese.

La centralità che le Pmi ricoprono nel sistema imprenditoriale europeo ha spinto la Commissione a varare nel giugno del 28 lo Small business Act, con l’intento di favorire la cultura d’impresa delle Pmi sia a livello europeo che negli stati membri e di rimuovere gli ostacoli al loro sviluppo. A questo proposito, al primo posto tra le richieste avanzate dalle Pmi si colloca la semplificazione amministrativa, quale passaggio obbligato per il recupero di un rapporto con le istituzioni avvertite come distanti, se non addirittura ostili al mondo delle Pmi.

A seconda delle circostanze le dimensioni ridotte delle Pmi sono state interpretate sia come un elemento di forza che di debolezza. Nel primo caso, si fa riferimento alla loro struttura flessibile che, al contrario delle grandi imprese, le rende in grado di adattarsi rapidamente ai mutamenti e alle opportunità di autoimpiego che sono in grado di garantire in momenti di crisi occupazionale. Nel secondo, le ridotte dimensioni divengono un limite nel momento in cui rendono difficile l’accesso al credito, non forniscono adeguate posizioni professionali, non favoriscono il ricambio generazionale, l’internazionalizzazione e gli investimenti in ricerca e sviluppo.

In quest’ambito, il “saper fare” di cui le Pmi sono depositarie costituisce una risorsa che rischia di andare dispersa a causa dell’impossibilità di operare un salto dimensionale che le metta in grado di proiettarsi in uno scenario più vasto. Il saper fare infatti, come sottolinea Sennett, non ha un carattere esclusivo e deve essere condiviso attraverso la sua trasmissione da una generazione all’altra, mantenendo così vivo il legame con il territorio e le comunità di riferimento, attualmente messo in crisi dal fenomeno della delocalizzazione produttiva. La formazione, la creazione di reti, il sostegno agli investimenti in ricerca non sono che alcuni degli strumenti per la salvaguardia del “saper fare”.

Da questo punto di vista, non si tratta tanto di quantificare il “potenziale delle imprese”, quanto di riconoscere la dimensione dell’economico, nell’insieme dei rapporti sociali e difficilmente distinguibile da essi. L’economia contemporanea, attraverso l’artificio del mercato, ha fatto dell’agire economico un’astrazione, dimenticando tra l’altro che nello svolgere bene il proprio lavoro si acquisisce una sorta di valore aggiunto non quantificabile in termini economici, ma che chiama in causa la qualità della vita dell’intero corpo sociale e, perché no, la felicità.

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