viviamo in una società di scarica barili

Proverbio rivolto a chi, per giustificarsi di ciò che doveva fare e non ha fatto, ne attribuisce ad altri la colpa adducendo inconsistenti pretesti.

La forza naturale della parola induce chi la sa usare a fare molto spesso falsa politica che serve, non a spiegare, a chiarire ma al contrario a prevalere sull’interlocutore, a coprire i propri individuali interessi facendoli apparire come interessi di tutti, oppure a non riconoscere le proprie responsabilità ma a mascherarle con parole prive di contenuto.

Questo aspetto sociale a fatto si di determinarne

L’abbandono per delusione

È questa l’antipolitica di colui che nel corso del tempo è rimasto disorientato e deluso da essa così come finora è stata esercitata e che giudica ormai fallimentare: decide quindi di allontanarsene definitivamente chiudendosi nella sfera del suo privato.

Al di là delle definizioni o scelte, la politica in senso generale – riguardante “tutti” i soggetti facenti parte di una società, e non esclusivamente chi fa politica attiva, ovvero opera nelle strutture deputate a determinarla – è l’occuparsi in qualche modo di come viene gestito lo stato o sue sub strutture territoriali.
In tal senso “fa politica” anche chi, subendone effetti negativi ad opera di coloro che ne sono istituzionalmente investiti, scende in piazza per protestare; quest’accezione del termine si spinge fino a sostenere che – se la politica in senso generale è l’occuparsi del bene pubblico – allora anche prendere una carta da terra e metterla nel cestino è azione politica.
Ne segue che non si può concepire la forza distribuita in modo che, in una moltitudine di uomini, uno o taluni la posseggano e gli altri no, uno o taluni ne posseggano più e altri ne posseggano meno; sicché quell’uno o quei taluni s’impongano agli altri e li signoreggino.
La varia distribuzione di quella forza non è quantitativa ma qualitativa; ed a varietà di attitudini e di capacità e di virtù, di cui ciascuna cerca il suo complemento nelle altre, ciascuna ha bisogno delle altre, ciascuna reciprocamente può imporsi alle altre, minacciarle della privazione del proprio sussidio, esercitare, come si dice, una pressione sulle altre.
E il risultato di queste varie pressioni è l’accordo sopra un modo di vivere, il reciproco consenso.
Il dilemma se lo Stato si fondi sulla forza o sul consenso, e il quesito se legittimo sia lo Stato dovuto alla forza o solo quello dovuto al consenso, vanno messi in compagnia con la distinzione di sopra ricordata tra Stato e governo; perché, in verità, forza e consenso sono in politica termini correlativi, e dov’è l’uno, non può mai mancare l’altro.
Consenso (si obietterà) «forzato»; ma ogni consenso è forzato, più o meno forzato ma forzato, cioè tale che sorge sulla «forza» di certi fatti, e perciò «condizionato»: se la condizione di fatto muta, il consenso, com’è naturale, viene ritirato, scoppiano il dibattito e la lotta, e un nuovo consenso si stabilisce sulla condizione nuova.
Non c’è formazione politica che si sottragga a questa vicenda: nel più liberale degli Stati come nella più oppressiva delle tirannidi, il consenso c’è sempre, e sempre è forzato, condizionato e mutevole. Se così non fosse, mancherebbero insieme e lo Stato e la vita dello Stato.
Traducendo in altri vocaboli gli stessi termini di questa relazione, e chiamando «autorità» tutto quanto rappresenta il momento della forza (promessa o minaccia che sia, annunzio di premio o di pena), e «libertà» quanto rappresenta il momento della spontaneità e del consenso, deve dirsi che in ogni Stato autorità e libertà sono inscindibili (e si pensi anche qui agli estremi del dispotismo e del liberalismo): la libertà si dibatte contro l’autorità, e pur la vuole, e senz’essa non sarebbe; e l’autorità reprime la libertà eppure la tiene viva o la suscita, perché senz’essa non sarebbe. Si celebra la libertà: a ragione.
Quale parola fa battere con più calore e dolcezza il cuore umano ?

Da soli non ci si salva !!  

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