In fondo è che il riflesso a creare contrapposizioni deriva da una sorta di educazione (in realtà diseducazione) prodotta dallo scenario mediatico precedente a quello digitale – dalle persone che creano ad hoc situazioni per mere finalità.
Quando, infatti, i mass media erano l’unico orizzonte della comunicazione di massa, la retorica “dell’uno contro l’altro“ era la modalità più a buon mercato per attirare l’attenzione. Dalle pagine di giornale impostate con le classiche interviste pro/contro, ai talk show con i vari interlocutori posizionati in base a una opposta visione su una certa questione: il conflitto è sempre stato il fattore di notiziabilità più immediato e facile da proporre (e lo è ancora – forse più di prima !).
Lo spirito di contrapposizione è anche maturato per il tipo di scenario. Prima del Web i media hanno sempre funzionato secondo uno schema con diffusione di contenuti “da uno a molti“. Il mezzo di comunicazione (radio, tv, giornale, ecc.) deteneva la possibilità esclusiva – diremmo il potere – di proporre temi e prospettive alla moltitudine. Il pubblico contava solo nella sua possibilità di ascoltare, leggere, vedere (era parte debole). Non aveva una vera voce in capitolo se non per protesta: lettere ai giornali, associazioni di ascoltatori, manifestazioni pubbliche, ecc.
Questo schema ha fatto sì che in ognuno maturasse il riflesso a reagire con un’opposizione di fronte ai temi affrontati secondo schemi diversi dai propri. È esattamente ciò che accade sui social: quando interagiamo con un post, che sia una notizia o una riflessione di qualcuno, il primo approccio è spesso quello di esprimere una posizione di conflitto (d’accordo/non d’accordo, favorevole/contrario). Succede anche nella elaborazione: quando segnaliamo qualcosa tendiamo a farlo spesso per protestare o per denunciare una notizia/contenuto che riteniamo negativo.
Lo spazio è aperto, disponibile
Mio modesto pensiero è che questa modalità è la meno efficace nello schema conversazionale. Infatti lo spazio online non è come quello dello scenario dei media di massa. Non c’è bisogno di guadagnarsi l’attenzione attraverso conflitti e contrapposizioni perché lo spazio c’è ed è disponibile anche per i “deboli“. Non c’è l’editore di internet, ci siamo noi con quello che diciamo e con il “come” lo diciamo in connessione con gli altri. A noi insomma la possibilità di aprire scenari e discussioni nelle modalità che riteniamo migliori, quella conflittuale non è obbligatoria né la più efficace.
Invece di protestare e denunciare – ci si deve concentrare a offrire spunti, a suggerire riflessioni rilevanti, cambiare atteggiamenti, partecipare fattivamente in un modo che migliora realmente la vita dell’altro, si è nella modalità più promettente per lo scenario digitale. Chiamo questo spazio “lo spazio di valore“, quello in cui ciascuno si dedica a entrare in relazione con l’altro portando qualcosa, un valore aggiunto: mettere del proprio per il bene di entrambi, invece di dedicarsi a delineare differenze.
Lo spazio di valore è il tempo
A ben guardare infatti quello “di valore” non è uno spazio ma il tempo. Ci vuole tempo per costruire relazioni, per capire, per avere la pazienza di affrontare certi temi. Chi frequenta i social curando la dimensione del tempo pensa a coloro con cui ha a che fare, prima ancora di cercare like facili. Pensa al passato, al presente e anche al futuro. È consapevole che certe cose, che oggi sembrano fondamentali e primarie, fra un po’ saranno in secondo piano. Pensa che se anche ci fosse frizione, fraintendimento, incidente, si può sempre recuperare perché c’è tempo. È consapevole che non tutto si può risolvere subito, soprattutto quando ci si sta confrontando su temi essenziali per la vita umana, ed è disposto a fermare la discussione per riprenderla in un secondo momento. Infine: la dimensione del tempo è la dimensione di ciò che dura, che rimane, ciò che veramente conta.
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