imprenditoria diffusa . . . aiutiamoci . . .

Il fenomeno dell’imprenditorialità diffusa consiste in un contesto economico in cui operano una moltitudine di piccole imprese. L’imprenditorialità diffusa convive accanto al sistema delle grandi imprese nello stesso sistema produttivo. In passato il tessuto delle piccole imprese era sottovalutato e sfruttato dalla politica dai governi dalle imprese più grandi, le micro imprese erano considerate soltanto come attività residuali. Il ruolo delle piccole imprese deve essere rivalutato. In particolar modo in paesi come il nostro, dove le piccole imprese assorbono gran parte dell’occupazione italiana e sono un efficace fattore di sviluppo economico.

Partendo dal presupposto che ogni impresa nasce piccola e con pochi capitali, l’imprenditorialità diffusa è il risultato del desiderio e della necessità di lavorare delle famiglie. La decisione di aprire un’attività economica in proprio, il cosiddetto “lavorare per se stessi” è spesso una soluzione per uscire dalla disoccupazione.

Le piccole imprese sono composte dagli imprenditori che si presentano, talvolta aiutati dall’intera famiglia, sotto forma d’impresa. La nascita delle nuove imprese diventa, in tal modo, un canale occupazione sia per i neo-imprenditori e sia per tutti gli altri lavoratori che saranno assunti nell’impresa.

La via del lavoro autonomo si trasforma in impresa, diventando un motore di sviluppo di nuova creatività. a crescita delle nuove imprese e l’imprenditorialità diffusa sono un fattore positivo dell’economia. Dalla micro imprenditorialità nasce l’innovazione di processo e di prodotto, pur in presenza di un contesto d’impresa a capitale minimo.

L’imprenditore in una piccola imprese può osservare il mercato da vicino e svolgere diversi ruoli e funzioni aziendali. Nella fase iniziale il valore di una piccola impresa è determinato dall’esperienza di chi la gestisce (capitale umano). Pur essendo elevato il rischio della mortalità d’impresa, sono molte a superare il pareggio ed avviarsi in un cammino di sviluppo, con effetti positivi dal punto di vista sociale (nuova occupazione, nuove entrate fiscali per lo Stato ecc.). . .

Da soli non ci si salva !!     

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partecipazione democratica . . .

Stiamo vivendo un tempo molto buio anche sul piano della qualità della rappresentanza politica, sia italiana che internazionale, ma stiamo anche assistendo alla nascita di “minoranze creative” che emergono dalla società civile e che sono espressioni della Politica con la P maiuscola.

Nella società contemporanea, caratterizzata da forti spinte individualistiche, o meglio dalla ricerca di soluzioni personali, e solo personali, anche a problemi che poi sono collettivi, dedicare attenzione all’analisi di esperienze di solidarietà e partecipazione può sembrare quasi folkloristico.

Oltre a sembrare uno studio di nicchia, può apparire addirittura inutile agli occhi di chi considera i sistemi politico-economici sempre “etero diretti”. In questa direzione, la fredda e motivata considerazione che i decisori sono effettivamente spesso molto lontani da chi subisce le conseguenze delle scelte politico-economiche, si mescola col superficiale “qualunquismo generalizzato e generalizzante”.

Questa impressione viene ulteriormente amplificata nel sud Italia, ed in particolare in terre dominate dalla criminalità organizzata e dalle mafie, intese come sublimazione dell’egoismo, e del mors tua vita mea, dell’homo homini lupus. In realtà, sia con uno sguardo di insieme più generale ma attento, sia con approfondimenti puntuali in settori specifici o territori particolari, ci si trova di fronte a dati ed esperienze sorprendenti, che smentiscono le considerazioni fatte in apertura.

I dati sono necessari per iniziare una riflessione macro su un tema così importante, ma restano pur sempre delle nude cifre, scritte su morti pezzi di carta o monitor di pc. Le seconde, le esperienze vissute, ci consentono di vedere i volti degli uomini e delle donne che si impegnano per e con “l’altro da se”, e per migliorare il contesto in cui vivono con gli altri e per costruire una economia diversa.

Questo “dare volti” ai numeri è molto utile in tutti i tipi di ricerche sociali ed anche economico/giuridiche, ma in particolare in questo caso è fondamentale. Partendo dai numeri, non possiamo trascurare il dato del superamento dei 10 milioni di italiani ed italiane impegnate in attività di volontariato e solidarietà, dichiarata come “continuativa” nel 2012. Per continuativa si intende ripetuta nel tempo in modo costante e non estemporanea, o legata alle festività natalizie. È una attività prevalentemente “organizzata” con altri, anche se nelle forme più disparate: associazioni riconosciute o non riconosciute, parrocchie o centri sociali, cooperative o fondazioni o piccoli comitati locali, ecc, ecc.

Questo dato in aumento, sembrerebbe essere in netta controtendenza col graduale abbandono della vita pubblica, testimoniato dalle sempre più alte percentuali di astensionismo elettorale. Mi spiego meglio: rinunciare, anche momentaneamente, al diritto di voto ed andare ad ingrossare il crescente numero dei delusi e degli astenuti, in molti Paesi equivale ad una presa di distanza dalla Res Publica, non solo dallo “Stato apparato”, ma spesso anche dallo “Stato comunità”, e dalle questioni di interesse collettivo. Si abbandona la sfera pubblica per rinchiudersi in soddisfazioni individuali.

Nel nostro Paese invece la voglia di partecipazione non ha abbandonato la politica, ma solo i partiti, che sono soltanto una delle forme di pratica delle attività di interesse collettivo. Quindi alla fuoriuscita delle persone dalle sedi dei partiti (gli iscritti ai partiti non sono mai stati così pochi nella storia repubblicana) ha fatto seguito in modo quasi speculare un ingresso di persone nelle sedi di associazioni e comitati di vario tipo. E con queste persone è entrata la voglia di “partecipare”, di dare il proprio contributo per cause anche piccole, ma simboliche.

Stiamo vivendo un tempo molto buio anche sul piano della qualità della rappresentanza politica, sia italiana che internazionale, ma stiamo anche assistendo alla nascita di “minoranze creative” che emergono dalla società civile e che sono espressioni della Politica con la P maiuscola. Erroneamente pensiamo che la cittadinanza attiva si esprima ogni cinque anni attraverso il voto, ma la nostra Costituzione (articolo 1, comma 2) dice che “la sovranità appartiene al popolo”: non “deriva” dal popolo, o “nasce” dal popolo, come affermano altre Costituzioni straniere, che è come dire “il popolo dà vita alla sovranità e poi la trasferisce col voto ai propri delegati, ogni 4 o 5 anni, e poi il popolo può stare comodo a casa sua”, ma i nostri Padri costituenti hanno scelto l’espressione forte “appartiene”, che è un termine molto preciso.

In altre parole la cittadinanza attiva si può e si deve praticare tutti i giorni, e a maggior ragione val la pena farlo in questo momento buio della storia politica istituzionale, in cui i partiti (che dovrebbero essere “ascensori sociali”, che portano le istanze dal popolo nelle aule del Parlamento) sono al minimo della credibilità e della rappresentanza. Ma proprio in questo momento di crisi, ci sono tante “buone pratiche politiche” esercitate dalla società civile organizzata. Ci sono sempre più persone che, per esempio, abitando vicino ad un giardino pubblico abbandonato dalle istituzioni da molto tempo, vanno a pulirlo, portano scope e palette, se necessario si autotassano e risolvono il problema. Oppure persone che aderiscono ad associazioni e dedicano parte del loro tempo, ogni settimana, a dare conforto ad ammalati ricoverati in ospedale, o ai loro familiari, per puro spirito solidale.

Queste attività virtuose sono contagiose e diventano la buona Politica, come già diceva Aristotele: iniziare delle buone abitudini le fa poi diventare consuetudini e pratiche facili da ripetere. E questo succede anche in regioni storicamente molto complesse come quelle meridionali, dove è radicata una cultura della delega, frutto di secoli di dominazioni straniere e di sovrani che decidevano al posto dei sudditi. O dove si delegavano i vicerè spagnoli che si “occupavano” del territorio. Poi questo sistema ha attraversato molte trasformazioni ed è degenerato nel sistema mafioso e camorristico, ed ha mantenuto grosse fette di popolazione italiana nella paura e nell’isolamento.

In questa sede è certo difficile sintetizzare le tante concause della situazione meridionale, ma preferisco limitarmi a dire che proprio dove si è diffusi per anni u  comportamento che è stato definito “familismo amorale” (ma correttamente Isaia Sales contesta questa definizione argomentando in modo convincente)  e la difesa degli interessi di microbotteghe, si sta verificando una reazione d’orgoglio della popolazione meridionale, e si registra una crescita significativa delle più disparate forme di cittadinanza attiva.

Proprio dove si sono sgretolate per anni le relazioni interpersonali e dove si è distrutta la terra sono nati comitati civici molto attivi. Si dirà che è una reazione tardiva, che il popolo meridionale si è svegliato solo quando è sbattuto violentemente di fronte alla realtà drammatica. Sta di fatto che, ad esempio nella regioni del sud sono nate alcune delle principali iniziative di solidarietà sociale degli ultimi anni, e sta diventando sempre più un laboratorio interessante in cui si cerca sostenibilità e benessere, con soluzioni a livello locale, ma coordinato tra i “portatori di valore” e non solo di interessi.

Per quanto riguarda il rapporto tra popolo sovrano e partecipazione, si pensi ad un diagramma con quattro lati. Un lato è l’individualismo che porta a risolvere i problemi da sé, soltanto se toccano direttamente il proprio interesse personale; un altro lato è la cultura della delega che facilmente degenera in metodi clientelari o corrotti; un altro ancora è la cittadinanza esercitata soltanto al momento del voto che ha generato una “casta” che fa il proprio interesse e non si cura del bene comune. L’ultimo lato è costituito da tutte le pratiche della democrazia della partecipazione. Quest’ultima costituisce quella reazione delle minoranze creative che stanno emergendo dal momento buio che stiamo vivendo, e si stanno inventando una via di uscita pacifica e nonviolenta alla crisi delle istituzioni e dell’economia.

Fonte: BENE COMUNE scritto da Renato Briganti

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una nazione bloccata dagli allerta meteo ! . . .

Incapaci di scegliere

L’incapacità di prendere decisioni, una sensazione che proviamo di fronte alle scelte responsabili.

Noi esseri umani siamo dotati naturalmente delle capacità necessarie per prendere decisioni. Possiamo affermare che sono implicite nella nostra intelligenza. Gli animali per affrontare le scelte che si parano loro davanti, lotta o fuga, un tragitto piuttosto che un altro, usano principalmente la programmazione automatica che è inserita nei loro geni o che hanno appreso dalla madre o dal gruppo sociale.

Per gli esseri umani vale lo stesso, ma l’importanza dei geni è limitata e lascia il passo a una predominante componente culturale, cioè alle chiavi di lettura e comportamentali che i nostri genitori e la società di cui facciamo parte ci hanno trasmesso durante la nostra infanzia. Ma non è tutto qui: grazie alla sua intelligenza un essere umano può andare oltre ai geni e alla cultura e prendere decisioni secondo valutazioni personali, basate sulle informazioni disponibili, ma anche sulla consapevolezza personale di noi stessi e del mondo in cui viviamo.

In breve l’intelligenza e la consapevolezza ci rendono in grado di compiere scelte diverse da quelle predefinite. E’ una capacità potenziale che abbiamo dentro di noi, ma che deve essere sviluppata e allenata. Tutti la possediamo e tutti l’abbiamo sviluppata in una certa misura.

Quindi quando affermiamo di essere incapaci di prendere un decisione, non diciamo il vero. Stiamo facendo altro, spinti da emozioni o bisogni veri o fittizi.

Per esempio, stiamo dicendo che non vogliamo assumerci la responsabilità della scelta, o delle sue conseguenze. Oppure siamo spinti da incapacità acquisite nel tempo, di solito a seguito di traumi che non siamo riusciti ad affrontare o assorbire. Così la paura per un fatto avvenuto nell’infanzia ci spinge a evitare luoghi, esempio il mare, o attività, esempio sciare o guidare, o situazioni, esempio un qualunque esame, e così via.

Sono veri e propri blocchi emotivi di fronte a scelte che siamo costretti ad affrontare. Ecco che evitiamo di prendere le decisioni, sosteniamo di non essere in grado, perfino di non essere in grado di scegliere, ma comunque facciamo di tutto per procastinare la decisione.

Quali motivi ci spingono a procastinare?

In realtà i motivi che spingono a procastinare possono essere molteplici e determinati da cause diverse. Approfondiremo l’argomento procastinazione nel prossimo post, ma solo per chiarezza cito alcune delle cause più comuni:

1. pigrizia

2. disinteresse

3. perfezionismo

4. paura dell’insuccesso

5. paura del successo

6. paura delle conseguenze

7. paura delle responsabilità

8. ribellione

e così via.

Secondo voi, per quale motivo alcune persone sono in grado di compiere anche le scelte più complesse, mentre altre non vogliono sentirne parlare?

Non siamo nati così, abbiamo imparato a farlo.

Come si impara a scegliere?

In primo luogo, facendolo. Compiere scelte è un’arte che richiede esercizio, come le arti marziali, la volontà e praticamente tutte le capacità interiori di noi esseri umani.  la palestra migliore è la vita di tutti i giorni.

Si inizia imparando a riconoscere le scelte che la vita ci presenta, passo passo, lungo la nostra giornata, poi si inizia a decidere sulle piccole cose prestando attenzione a quello che si fa e a come ci sentiamo, prima, durante e dopo.

Perché ho deciso in quel modo?

Quali conseguenze avrà la mia decisione?

Cosa sarebbe accaduto se decidevo in un altro modo?

Via via, un passo alla volta, ci troveremo a anticipare le decisioni, inizieremo a sentirle arrivare e le affronteremo con calma e sicurezza. Nei prossimi post vedremo come è fatta una scelta, come si affronta, quali esercizi possiamo fare per diventare più sicuri mentre prendiamo una decisione e molto altro ancora.

 Nel frattempo pensate a quello che abbiamo detto e provate a capire perché procastiniamo le decisioni.

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impegno sociale

“La mia speranza resta viva grazie a persone che forse non sono famose a livello internazionale, ma sono volti noti all’interno della comunità di chi difende i diritti umani. A differenza di chi promuove solo se stesso e i suoi interessi privati”

(Zeid Ra’ad Al Hussein, ex Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani)

Sono testimoni scomodi, pietre d’inciampo, lottatori pacifici. I difensori e le difensore dei diritti umani sono persone che -spesso lontano dai riflettori e in aree remote del pianeta- rischiano la vita per proteggere i più deboli, la propria comunità, le minoranze discriminate, i diritti dei lavoratori e dell’ambiente.

Spesso i piani si sovrappongono: difendendo il fiume sacro per una comunità, difendo i diritti e la dignità di un popolo oltre all’ambiente. Spesso le conseguenze di questo impegno sono tragiche.

 

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L’incapacità di prendere decisioni.

Incapaci di scegliere

Incapacità di scegliere

L’incapacità di prendere decisioni, una sensazione che proviamo di fronte alle scelte o a certi tipi di scelte.

Noi esseri umani siamo dotati naturalmente delle capacità necessarie per prendere decisioni. Possiamo affermare che sono implicite nella nostra intelligenza. Gli animali per affrontare le scelte che si parano loro davanti, lotta o fuga, un tragitto piuttosto che un altro, usano principalmente la programmazione automatica che è inserita nei loro geni o che hanno appreso dalla madre o dal gruppo sociale.

Per gli esseri umani vale lo stesso, ma l’importanza dei geni è limitata e lascia il passo a una predominante componente culturale, cioè alle chiavi di lettura e comportamentali che i nostri genitori e la società di cui facciamo parte ci hanno trasmesso durante la nostra infanzia. Ma non è tutto qui: grazie alla sua intelligenza un essere umano può andare oltre ai geni e alla cultura e prendere decisioni secondo valutazioni personali, basate sulle informazioni disponibili, ma anche sulla consapevolezza personale di noi stessi e del mondo in cui viviamo.

In breve l’intelligenza e la consapevolezza ci rendono in grado di compiere scelte diverse da quelle predefinite. E’ una capacità potenziale che abbiamo dentro di noi, ma che deve essere sviluppata e allenata. Tutti la possediamo e tutti l’abbiamo sviluppata in una certa misura.

Quindi quando affermiamo di essere incapaci di prendere un decisione, non diciamo il vero. Stiamo facendo altro, spinti da emozioni o bisogni veri o fittizi.

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comunicazione sociale ! . . .

Riflessione sulla qualità delle relazioni umane tra soggetti, l’ambiente educativo che determina l’efficacia di un’esperienza scolastica orientata all’emancipazione di tutti e di ciascuno» questo il desiderio del Comitato spontaneo Trazzera Marina iniziativa che intende comunicare alla scuola che aiuti la rinascita del Paese rimanendo sempre aperta.

La scuola, è la scuola di tutti è rappresentata come sempre dalle iniziative decentrate svolte con molte scuole del comprensorio.

I focus group territoriali da organizzare saranno finalizzati a suscitare e a raccogliere la narrazione dei percorsi di cambiamento, affrontati in riferimento alle tematiche scelte e alle variabili che determinano il fare scuola, l’approfondimento dei singoli temi viene realizzato attraverso il confronto con esperti nei seminari tematici.

Le iniziative  dovranno coinvolgere dirigenti, insegnanti, genitori, educatori, amministratori locali nella convinzione che la scuola debba uscire dall’autoreferenzialità e migliorare il suo rapporto con tutti gli attori dell’educare e dell’educarsi.

Le idee, le esperienze e le proposte, emerse nel percorso di iniziative decentrate verranno documentate a cura dei responsabili delle associazioni e degli Enti promotori raccolte in un Quaderno che diverrà uno strumento di lavoro importante.

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siamo messi proprio male ! ! . . . . diamoci na’ mossa ! . . .

Come il prezzemolo L’opportunista : puoi trovarlo ovunque.

La persona opportunista è quella che agisce sempre per proprio tornaconto. Nonostante il vocabolario associ al termine “opportunismo” anche un altro significato , legato alla capacità di cogliere un’occasione sfruttando il momento favorevole, il risultato è comunque lo stesso.

Quando cerchi di trarre vantaggio da una difficoltà altrui, per esempio, o fai in modo di ottenere qualcosa forzando una situazione per raggiungere i tuoi scopi, il confine tra “opportunità” e opportunismo” diventa sempre più sottile. Di opportunisti è pieno il mondo, purtroppo, ma possiamo imparare a riconoscerli e arginarli. Ciò è indispensabile, soprattutto, se la noncuranza di chi approfitta si traduce rapidamente in una totale mancanza di rispetto per la dignità e i sentimenti di chi, suo malgrado, si ritrova coinvolto.

Opportunismo e lavoro di gruppo

Creare e gestire un gruppo di lavoro è piuttosto difficile. Se poi manca la voglia di confrontarsi e crescere insieme, perché ciascuno va avanti seguendo solo il personale interesse, il quadro si complica.

Per superare l’individualismo, che pare abbia preso il sopravvento, sarebbe sufficiente ricordare che “individuo” e “gruppo” sono due concetti complementari. A tal proposito, Thich Nhat Hanh, poeta e attivista per la pace, nel suo libro “Trasformare la sofferenza – L’arte di generare la felicità”, ha scritto:

Nell’azione collettiva si può vedere anche l’aspetto individuale: c’è chi si siede diversamente dagli altri, chi si concentra più facilmente, chi ha bisogno di maggiore sostegno. Nel collettivo possiamo vedere l’individuo, e l’individuo contiene in sé il collettivo. Non esiste l’individualità assoluta, così come non esiste la collettività assoluta.

– cit. Thich Nhat Hanh

Questa considerazione dovrebbe aiutarci a capire quanto sia inutile agire con egoismo e opportunismo, visto che i migliori risultati si potrebbero ottenere collaborando. Eppure, sappiamo bene quanto la realtà quotidiana, nella maggior parte dei casi, sia diversa.

È molto raro, infatti, non individuare, all’interno di un team, quella simpatica figura che cerca di ottenere un beneficio (temporaneo oppure a lungo termine) sfruttando la buona fede, il ruolo, i contatti, la fiducia, la disponibilità o, ancora peggio, l’errore di un collega. Il suo motto preferito? “Mors tua vita mea”.

Opportunismo e buone relazioni

Se è già desolante parlare di opportunismo in ambito lavorativo, lo è ancora di più se facciamo riferimento alle relazioni personali. Anche se, a pensarci con attenzione, analizziamo 2 facce della stessa medaglia.

Per favorire una pacifica convivenza professionale, infatti, è necessario creare un contatto, coltivare una relazione. Cosa c’è alla base di una buona relazione? Il dialogo. Cosa rappresenta il dialogo? La forma più semplice di comunicazione. Ebbene, è proprio la comunicazione che fa il gruppo: lo influenza, ne regola le dinamiche. Se è costruttiva genera unione, in caso contrario alimenta dissapori e risentimenti.

L’opportunismo è uno dei principali elementi di contrasto ed è pure democratico: si presenta in ufficio, a casa, al corso di yoga. Ovunque ci sia un legame, tra due o più persone e in qualunque contesto, ovunque ci sia un’opportunità da cogliere, ci sarà anche un margine di rischio: la concreta possibilità, in particolare, di assistere a comportamenti disonesti messi in scena per pura convenienza (e, spesso, contro di te).

Tante maschere, pochi volti: la sincerità è merce rara

Ho sempre mal tollerato l’opportunismo, specie quando si manifesta in modo subdolo, cioè mascherato da falsa amicizia. Pensi di aver costruito un rapporto sincero, basato sulla stima reciproca, sul rispetto, sulla benevolenza incondizionata… e poi ti rendi conto, all’improvviso, che il tuo interlocutore aveva altri programmi. C’è un elemento chiave che può aiutarti a fare chiarezza: la costanza. Ti spiego il motivo.

L’opportunista ha queste caratteristiche: appena raggiunto il suo obiettivo ti abbandona, oppure modifica il suo comportamento ogni 2×3. La continuità, insomma, non è il suo forte. Hai presente quelle persone che irrompono nella tua vita a intermittenza, come le lucine natalizie? Ecco. Non le senti per anni e poi, appena ritengono di poter ottenere qualcosa (perché hai iniziato a lavorare in un’azienda di loro interesse, perché hai contatti utili o hai comprato casa a New York), ritrovano il tuo numero e anche una buona dose di faccia tosta: “Carissimo/a! Come va? Sei stato/a sempre nei miei pensieri in questi mesi!”. Eh, come no.

La leggera ironia è voluta, ovviamente. Anche l’esempio un po’ grezzo. Il punto su cui vorrei invitarti a riflettere, però, è serio: se cogliere un’opportunità è legittimo, è altrettanto giusto utilizzare gli altri per i propri scopi? È corretto evidenziare lo sbaglio di un collega per conquistare una promozione? Oppure approfittare della generosità di un amico per ottenere un favore?

Che tipo di conversazione possiamo sostenere quando in tutto ciò che diciamo la sincerità è assente? Con quale coraggio possiamo giocare con i sentimenti di chi ci stima e ha fiducia nel nostro operato?
È vero, Pirandello ci aveva avvertiti… ma spero che, prima o poi, si possa invertire la tendenza e costruire una società diversa, più schietta, in cui incontrare finalmente “tanti volti e poche maschere”.

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omologazione e spersonalizzazione . . . riflettiamo ! . . . organizziamoci ! . . .

A favorire la percezione di appartenere ad un mondo unico è senz’altro rilevante l’espansione del capitalismo industriale che ha generato la diffusione di una grande quantità di merci standardizzate economicamente accessibili a fette sempre crescenti di popolazione.
Illuminante a questo proposito è l’analisi offerta da George Ritzer che denuncia quella che lui chiama la mcdonaldizzazione della società:un processo di omologazione e spersonalizzazione che con i suoi prodotti occupa un posto di primo piano nella cultura di massa”.

 

A seguire questo processo è tendenzialmente anche la globalizzazione della comunicazione, che rende la conoscenza, l’informazione “a portata di mano”, grazie a quella compressione spazio-temporale che a causa dei diversi mezzi di comunicazione, rende tutto vicino e presente, ma con lo svantaggio di assimilare una quantità di informazioni che invece di rappresentare la realtà nella sua complessità, la presentano attraverso semplificazioni, tendendo ad esaltare l’esperienza più che a perlustrarne il significato e ad esibire partecipazione più che a operare analisi.

Riflettete gente !. . .  riflettete ! . . .

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Tra Stato e Mercato: la terza via

Una soluzione “comunitaria”: i distretti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni possono fornire un “altro tipo” di risposte a tali problemi, ponendo nuovamente al centro l’autodeterminazione della comunità locale, la cui “regia” può essere svolta dagli amministratori locali più attenti collegando le diverse esperienze dei territori all’interno di una strategia comune di sviluppo sociale ed economico dei territori, quale quella del “localismo inclusivo”. In questo modo gli amministratori riconoscono alle comunità locali, alle persone, un “potere” di autodeterminazione che è stato loro eroso in tempi di globalizzazione. Un “potere” inteso innanzitutto come capacità di controllo delle proprie vite e della costruzione della qualità delle relazioni, ponendo al centro il “buon vivere” nei luoghi dove si è, rendendoli a misura degli abitanti, dei loro problemi, ma anche valorizzando le loro risorse personali e l’inclusività comunitaria. I distretti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni quindi rappresentano un salto di qualità anche della politica: perché rafforzano uno spazio tanto importante quanto “dimenticato”, tra Stato e Mercato.

Filiere di prossimità per un nuovo tipo di sviluppo locale

Così facendo si crea anche un nuovo tipo di sviluppo locale e di amministrazione locale, “abilitando” e dando una dimensione di “scala” più ampia ad esperienze che, senza questa “rete” sarebbero tra loro frantumate. Così si dà loro il senso di una politica amministrativa che supera i confini, perché vede in tutto ciò non tanto un’aggregazione di attività che si sommano l’un l’altra, ma la creazione di un salto di qualità del fare amministrazione locale e sviluppo locale, favorendo nuove reti e filiere di prossimità dei beni comuni. E’ questa, in concreto, la politica di “localismo inclusivo”.
Questo tipo di esperienze “distrettuali” di beni comuni può essere riproducibile anche in forme diverse su altri territori, come sembrano evidenziare alcuni amministratori che hanno partecipato al convegno. Ma   richiede comunque sempre una forte scelta politica in questa direzione orientando in tal senso tutta un’amministrazione locale, nella sua componente politica e tecnica.

Una scelta Politica

Sembra emergere che nei distretti per l’amministrazione condivisa dei beni comuni vi sia un coordinamento, un tendenziale “fare sistema”, una visione politica sottostante, che favoriscono “comunità che apprendono” competenze civiche e sociali. Ed è proprio questo tipo di competenze acquisite che conferisce “potere” alle comunità: la possibilità/capacità di creare il nostro futuro di fronte a forze globali. Una prossimità reale, non virtuale, che nella forma del distretto per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, significa anche promuovere competenze sul come con-vivere oggi: “città che apprendono” e che creano “comunità inclusive”.
E’ necessario forse oggi più che mai coltivare più che la paura, questo tipo di coraggio, sia da parte di cittadini che amministratori: il coraggio di una nuova politica che attribuisca potere alle comunità locali e a quegli amministratori che sanno interpretare queste nuove esigenze sociali, sapendo che queste costituiscono un nuovo spazio tra Stato e mercato. Perché quando le comunità s’indeboliscono, allora il mercato diventa troppo iniquo e lo Stato troppo autoritario, come afferma Raghuram Rajan. Ricominciare dalle comunità locali è quindi una precisa scelta politica di chi innova in questo “squilibrio”… ricominciando dalle persone.

Fonte:  labsus tratto da scritto di Rossana Caselli

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patti di collaborazione

Fonte: Labsus

I regolamenti comunali volti a declinare questa innovativa funzione amministrativa, avente ad oggetto la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, sono il prodotto della “forza normativa della realtà”. La micro-rigenerazione nasce, infatti, quale fenomeno che sfida la legalità “formale”, sulla base di pratiche collettive d’uso volte alla riappropriazione di spazi o edifici abbandonati, in assenza di formale riconoscimento da parte dell’Amministrazione.
Circa centosettanta Comuni hanno ormai adottato regolamenti per disciplinare “forme di collaborazione tra cittadini e Amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” (art. 1, regolamento del Comune di Bologna), con l’obiettivo di conciliare il principio di legalità con quello di auto-organizzazione e auto-produzione sociale: ovverosia emancipare, in attuazione della sussidiarietà orizzontale, le prassi sociali, facendole confluire in un riconosciuto e legittimo dialogo paritario con l’Amministrazione comunale.
Nei regolamenti comunali la gestione condivisa dei beni comuni urbani tra cittadini e Amministrazione prende forma e nome di “patto di collaborazione”, quale strumento negoziale preposto alla concreta disciplina degli interventi di micro-rigenerazione. Controversa è la qualificazione giuridica dei patti. Nella maggior parte dei regolamenti, essi sono definiti atti di natura non autoritativa, in questo modo valorizzando il profilo consensuale tipico del “patto”, al punto da rendere l’accordo requisito imprescindibile.
A livello comunale, il principio sussidiario è stato, fino ad oggi, declinato, principalmente, nell’affidamento al mercato dei servizi pubblici locali. Qui la partecipazione dei privati nell’attività di interesse generale si traduce nella mera esecuzione della strategia e della programmazione pubblica, rigidamente regolamentate nel contratto di servizio, senza che vi sia, invero, alcuna attività di “promozione” da parte dell’Amministrazione e alcuna reale “amministrazione congiunta”.
Diversamente, nel rapporto che si instaura nell’ambito del patto di collaborazione la sussidiarietà orizzontale si traduce in una marcata riduzione dell’asimmetria tra Amministrazione e privati, grazie al ricorso a moduli consensuali e al perseguimento di interessi comuni ad entrambe le parti: il patto, pertanto, non può ricondursi né all’azione autoritativa dell’Amministrazione, né ad un intervento esclusivo dei privati.
Tuttavia, perché il procedimento che conduce alla sottoscrizione di un patto di collaborazione possa svolgersi secondo la flessibilità che gli è propria, è necessario che si distingua dall’ordinario affidamento di un contratto pubblico, onde sottrarsi alla relativa rigida disciplina concorrenziale (d.lgs. n. 50/2016, Codice dei contratti pubblici). A tal fine, deve essere assicurata la sostanziale gratuità del patto di collaborazione e la natura non economica dell’attività di micro-rigenerazione (Corte di giustizia dell’Unione europea, sent. 19 giugno 2014, causa C-574/12, Centro Hospitalar de Setúbal, punto 33; Consiglio di Stato, parere del 20 agosto 2018, n. 1382, paragrafo 5).
A fronte dell’obbligo di gratuità del rapporto, il patto di collaborazione non deve, però, degenerare, diventando lo strumento attraverso il quale l’Amministrazione scarica i costi sulla cittadinanza più attiva e responsabile.

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