Trasferimento generazionalmente orientato al cambiamento

Il melo secco- la vite - l’ulivo :

l’albero della conoscenza che dà frutti rappresentato dalla palme e dalla vite;

l’albero infruttifero rappresentato dal melo secco e dal fico;

l’albero della discendenza raffigurato dall’ulivo ;

L’ulivo è un albero contorto come l’albero della discendenza che comporta la presenza sia del secco, sia del frutto.
Da qui possiamo affermare che il volto del corpo familiare è caratterizzato dalla compresenza del dolore e della risorsa, della disperazione e della speranza, dell’ingiustizia e dell’atto equo.

Tocca all’esperto coscenzioso riconoscere tutto questo e mostrare la via della riconciliazione e del perdono, anche se la decisione di percorrerla spetta ai membri familiari.

I passaggi generazionali sono caratterizzati dalla compresenza di continuità e trasformazione, infatti eredità e nome sono le tematiche cruciali del passaggio che però risentono dei mutamenti culturali.
Risulta fondamentale cogliere la specificità dell’odio generazionale (il melo secco) in tutte le sue forme e le strategie per affrontarlo.

Tale odio si presenta attraverso il volto della menzogna, iniquità, invidia e  crudele indifferenza. La menzogna è caratterizzata da alcuni elementi di verità che vengono organizzati in un sistema falso.

L’odio generazionale si presenta anche nei casi in cui si vincolano i figli alla propria storia, scaricando e depositando sulla generazione a venire lutti  e colpe troppo pesanti.

Altro problema generazionale è l’iniqua distribuzione del dolore mediante la quale il rancore e la colpa provati dalla generazione precedente transita su quelle successive, che ha cercato di controbattere la tragedia del fallimento familiare, ma esse non riescono da sole ad affrontarle.

Le nuove armi sono il riconoscimento della tragedia attraverso l’implicazione di numerose persone e della stessa cultura di riferimento e l’impegno nel rilanciare la relazione con l’altro–> trasgredire.
Con la crudele indifferenza verso il destino dell’altro vi è una logica cinica che si può esprimere attraverso frasi come:”ognuno deve sapersela cavare” e “la vita è dura per tutti”.

In questo caso l’odio generazionale si presenta nella forma fredda. Una quota di indifferenza verso l’altro accompagna sia la menzogna, sia l’iniquità.
Oggi risulta difficile cogliere l’invidia nei confronti delle nuove generazioni, specie per quello che esse possono avere in confronto a quelle precedenti.

L’esperto si occupa del rapporto tra vincoli e risorse relazionali e non di mere patologie. Risalire alle generazioni non vuol dire solamente trattare di segreti indicibili e lutti incistati, ma anche considerare le fonti benefiche (la vite) presenti nella storia familiare.
Per quanto concerne il rapporto tra inter-generazionale e trans-generazionale.
Nell’approccio al “generazionale”, inter e trans non hanno attribuzioni positive o negative, ma indicano ciò che si situa tra (ciò che si cambia) e ciò che va al di là (ciò che attraversa e passa). Dunque, ciò a cui è possibile accedere è l’intergenerazionale–>ciò che le generazioni si scambiano tra loro “in bene e in male”. Esso è basato sulle azioni del trasmettere e del tramandare.
Il transgenerazionale è la risposta alla domanda “che cos’è che è passato e passa tra le generazioni?” in merito a valori e qualità simboliche fondamentali della speranza-fiducia nel legame e della giustizia nello scambio con l’altro.
Le azioni del trasmettere e del tramandare costituiscono l’invariante del passaggio generazionale.
Il trasmettere riguarda, oltre che il patrimonio genetico, la dote-eredità e lo status ed opera per traslocazione e deposito di diritti e di beni mettendo in luce la “spazialità generazionale”.


Il tramandare riguarda i temi delle origini e del nome ed opera per continuità/discontinuità di origini, nomi, tratti del carattere e mette in luce la presenza della “temporalità generazionale”.
Il trasgredire, invece, è un compito ed una risultanza dell’azione generazionale.

Un compito in quanto tocca alle generazioni successive accettare e riconoscere ciò che “padri e madri” hanno lasciato in eredità e passare aldilà rilanciando l’azione generativa, una risultanza perché tocca alle generazioni precedenti garantire uno “spazio fluido” e di “rinnovamento delle origini” alle generazioni successive.

Lo scambio generazionale si ripete e si rinnova costantemente e , con esso, siripetono i traumi e si rinnovano le risorse.
Il trasferimento generazionale si manifesta come area incerta e critica della relazione. Esso ha una doppia faccia, è spazio ambiguo e non determinato perché dà vita ad azioni generative ed antigenerative la cui risultanza non è affatto determinata.

La trasmissione generazionalmente orientata permette alle persone di rivisitare i destini, riconnettersi con la propria storia e aprire nuovi spazi decisionali nella relazioni con l’altro. (trasgredire-cambiare atteggiamenti).
Le nuove generazioni devono far proprie l’eredità ricevuta dai padri, ma tocca alle generazioni precedenti lasciare a quelle successive lo spazio necessario perché ci sia trasgressione e così rinnovamento.

Quando si dice la verità, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi.

Da soli non ci si salva !!  

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lavorare con gli intenti

 IL nostro obiettivo di attirare l’attenzione affrontare problematiche diffuse con la collaborazione attiva del sociale per generare e sviluppare interesse, la combinazione dei contenuti è un vero e proprio obbligo per aziende e un sociale intelligenti.

Non si parla da soli! Il linguaggio nasce dalla relazione. Dalla relazione si comincia ad educare o rieducare alla comunicazione, qualunque essa sia: una parola,  un’immagine, un gesto.

Non vorremmo ripetere sempre i medesimi discorsi. Crediamo che non ci sono parole senza significato nella comunicazione. Non ci lasciamo vincere dalla tentazione di produrre un risultato rapido. Partiamo, dove è possibile, dal processo: strada apparentemente un po’ più lunga ma dai risultati più stabili.

Non parliamo a vanvera! Fissiamo delle mete a medio e a breve termine, concordate e condivise. Questo ci consente di verificare passo dopo passo il nostro intervento.

Non abbiamo regole fisse rispetto ai tempi e alle modalità dei progetti, perché ciascuno possa esprimersi con condivisione. Ogni progetto deve essere  personalizzato,  nel rispetto delle linee guida della condivisione.

Non diamo in premio le patatine, non compriamo prestazioni : cerchiamo di entusiasmare e di gratificare con il merito, perché no, a volte anche dando una caramella! Ma soprattutto preparando progetti e attività “che piacciono”, magari intervallando una cosa meno gradita ad un’altra più interessante.

Non vogliamo prescindere da alcune parole d’ordine: aggiornarsi, confrontarsi, studiare, ascoltare, meritare. Una di quelle che preferiamo è entusiasmare: usiamo ricordare Paperino per far comprendere il significato di sfortunato, di zio Paperone per introdurre il concetto di avaro, di Willy il coyote per spiegare cosa significhi non arrendersi mai.

Non occorre trincerarsi dietro la barricata dei paroloni e della terminologia scientifica per essere professionali. Cerchiamo di parlare semplice, e soprattutto di ascoltare.

Non è sempre facile trovare il tempo di scrivere parole, risultati, tempi e modalità di intervento. Non sempre ci riusciamo, ma resta nei nostri intenti, perché, se vogliamo crescere singolarmente e come gruppo, dobbiamo disporre di dati da confrontare, studiare e mettere a disposizione di altri.

Formare un gruppo di unità d’intenti è alquanto complesso, ma i benefici che se ne possono trarre ne fanno indubbiamente un’arma vincente.

Da soli non ci si salva !!  

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Imprese a caccia di laureati, ing. prof.lingue e economisti etc. ……

 Cercasi laureati, in particolare economisti, formatori, ingegneri elettrotecnici e matematici, ma anche traduttori ed interpreti non sono facili da trovare, nonostante la conoscenza delle lingue sia ormai un requisito indispensabile per trovare lavoro. Arriva il borsino dei titoli di studio più gettonati e a dirlo sono quasi 83 mila imprese private di industria e servizi, il campione intervistato nell’analisi del sistema informativo Excelsior-Unioncamere con Anpal, Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro, sulle previsioni di assunzione tra luglio e settembre 2017. Il tutto per un totale di quasi 970 mila unità.

La laurea è richiesta per il 12,3% dei 969 mila posti di lavoro previsti nel trimestre, in particolare in Lombardia, ma la ‘caccia’ al titolo giusto è dura per il 34,4% delle posizioni sia per mancanza di candidature (17,8%) che per la loro inadeguatezza (14,8%). Meno ardua, invece, la ricerca tra i diplomati (19,3%), ai quali sono riservate il 36% delle entrate, con punte di complessità per gli indirizzi di produzione industriale e artigianale (45,1%), informatico e telecomunicazioni (44,9%).

L’esperienza, secondo l’analisi, è spesso un fattore discriminanteper la ricerca del candidati, in particolare per i laureati ai quali viene richiesta nel 79,6% dei casi, contro una media del 67%. Ma a fare la differenza nella scelta sono anche le competenze maturate dal candidato. A 4 laureati su 5 viene richiesto l’utilizzo di tecnologie e strumenti internet e a 1 su 2 l’applicazione di soluzioni creative e innovative. Per questo tirocini e percorsi di alternanza scuola-lavoro che possano fornire ai giovani le giuste attitudini, spiega l’analisi, costituiscono uno strumento strategico per andare incontro alle esigenze delle aziende.

Entrando nel dettaglio della ricerca, le imprese denunciano di faticare a trovare 1 laureato su 2 in indirizzo linguistico (69,9% la difficoltà di reperimento), in ingegneria elettronica e dell’informazione (58,7%) e ingegneria industriale (50,2%), non va meglio la caccia ai matematici (40,9%9. Tra i profili tecnici di non facile reperimento ci sono i diplomati in costruzioni, ambiente e territorio (34,0%), in meccanica (29,6%) e in elettronica ed elettrotecnica (30,6%), ma anche i qualificati specializzati in impianti termoidraulici ad indirizzo elettrico e meccanico.
Tra i titoli di studio con più chance di lavoro ci sono anche i laureati in indirizzo sanitario e paramedico (9.140) e ingegneri industriali (8.550 le entrate previste). Tra i diplomati, invece, quelli che hanno seguito l’indirizzo amministrativo, finanza e marketing (60 mila), meccanico e meccatronica (32.570) e turismo enogastronomia e ospitalità (27.030). Ristorazione (59.580), meccanica (34.940) e benessere (30.830) sono le qualifiche professionali più richieste dalle aziende. Quanto alla mappa geografica della assunzioni previste, secondo l’analisi, a puntare maggiormente sui laureati in termini relativi sono le aziende lombarde (17,6% delle entrate programmate contro una media nazionale del 12,3%), seguite da quelle piemontesi (14,6%) e quelle laziali (14,5%). Fanno invece maggiormente leva sulle figure con qualifiche professionali le aziende della Liguria (41,5% contro la media del 22,4%), quelle del Trentino Alto Adige (40,4%) e della Valle d’Aosta.

A scuola per diventare supervisori in fabbrica digitale

La scuola forma le nuove figure per l’industria 4.0. L’Its Maker, l’istituto superiore meccanica, meccatronica, motoristica e packaging dell’Emilia-Romagna, che realizza percorsi biennali formativi post diploma, ne ha avviato uno nuovo per ottenere la qualifica di tecnico dei sistemi di controllo nella fabbrica digitale.

Il corso, nella sede bolognese dell’istituto, mira a formare nuove figure professionali per gestire installazione, configurazione, test, collaudo e messa in marcia di singole macchine, o di intere linee di produzione, in azienda o presso clienti terzi. Il corso prevedere 2.000 ore di formazione, di cui 800 di tirocinio in azienda, e la possibilità di trascorrere periodi di tirocinio all’estero. L’Its Maker è uno dei sei istituti tecnici italiani hanno aderito al progetto sperimentale lanciato dal Miur ‘Industry 4.0′. (ANSA).

Fonte : Redazione Agenzie ANSA

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snobbismo all’italiana

Italiani snobbano i fondi Ue, sono tanti ma servono a poco

Eurobarometro: Belpaese ‘vince’ palma scetticismo su benefici

BRUXELLES – Tra 2007 e il 2014 sono stati 29 miliardi, ai quali entro il 2023 se ne aggiungeranno altri 31,1: è un fiume di soldi quello erogato dall’Unione europea a favore dell’Italia attraverso i fondi strutturali che, secondo le stime di Bruxelles, nel settennato 2007-2014 ha creato 60.349 posti di lavoro e sostenuto 51.729 progetti realizzati da Pmi. Peccato che nel nostro Paese se ne siano accorti solo in pochi. Secondo i dati dell’ultimo sondaggio Eurobarometro, solo il 40% degli italiani interpellati ha sentito parlare almeno una volta di progetti cofinanziati dall’Ue e, unico Paese in Europa, meno dei due terzi della popolazione (43%) ritiene che tali iniziative abbiano portato sviluppo al territorio. Il 20% giudica l’impatto addirittura negativo (contro l’8% Ue).

La necessità di trovare un modo nuovo e più efficace per comunicare meglio i risultati ottenuti attraverso la politica di coesione è evidente, visto che i due terzi (63%) degli europei non ne ha mai sentito parlare. Ma almeno il 78% crede che l’impatto di questi progetti sia positivo per i territori. Solo nel nostro Paese il giudizio sui fondi Ue è così negativo: il 54% degli italiani (49% in Ue) dice di non aver mai sentito parlare del Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr) o del Fondo di coesione, mentre il 93% (70% in Ue) sostiene di non aver mai beneficiato di un’iniziativa finanziata da uno dei due fondi. Difficile immaginare che tale percezione corrisponda alla realtà in un Paese che, dopo la Polonia, è il secondo beneficiario della politica di coesione. Unico Fondo a godere di notorietà in Italia è quello di solidarietà per i disastri naturali (Fsue), di cui il nostro Paese è stato finora il maggiore beneficiario con oltre 1,3 miliardi. Il 72% degli italiani dichiara di conoscere il Fsue (media Ue 59%) e il 31% sa che è stato usato nel nostro Paese.

Fonte: Agenzia ANSA

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pratica del buon senso per la bontà della causa

Una riflessione sul valore delle relazioni e sulla fiducia come motore della generosità. Oggi la nostra attitudine a donare viene chiamata in causa con maggiore frequenza rispetto al passato e, soprattutto, con un largo ventaglio di tecniche e modalità. La stessa società che esibisce senza tregua modelli vincenti di protagonismo, spesso giocate sull’impatto emotivo e, comunque accomunate dall’esigenza di raccogliere il più possibile in un arco di tempo brevissimo, l’individualistico sollecita poi con altrettanta insistenza scelte tecniche sempre più sofisticate, mettendo fuorigioco onestà-altruismo e meritocrazia.

La pratica del buon senso - convincere la gente ad aiutarci per la bontà della causa con il rispetto delle persone, non strappando un’adesione frettolosa. Siamo qui a costruire una buona immagine e una sostanziale credibilità, solo il tempo e la partecipazione attiva garantiscono davvero buoni risultati.

Formare un gruppo di unità d’intenti è alquanto complesso, ma i benefici che se ne possono trarre ne fanno indubbiamente un’arma vincente.

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E’ necessario ! . . . . urgente !!!!!

Vivere nella società in modo che l’uno sia aiutato dall’altro e ognuno con la sua ragione si occupi di cose diverse…

Si forma così un sociale, tenuto insieme dalla convergenza del bene comune che prevale sui beni particolari, i quali, anzi, sono ordinati al bene comune come a qualcosa di più perfetto.

Questo concetto è superiore all’idea d’interesse particolare e d’interesse generale che viene invece spesso introdotto in politica e oggi più che mai dominante.

L’interesse tende ad una dimensione egoistica e soggettiva, mentre il bene comune tende alla realizzazione degli individui in ordine ad un bene oggettivo, ai diritti naturali, alle inclinazioni  individuate dalla famiglia e dalla scuola, occorre dare una dimensione morale della società che comprende la convivenza e dunque anche l’economia, la tecnica, l’organizzazione sociale, nell’esercizio di qualsiasi potere, nella scienza, nell’arte.

L’insieme i questi valori, cioè di queste realtà va vissuto in ordine alla realizzazione del bene comune.

Esso è un tutt’uno che si attua nell’insieme delle persone e per ciascuna di esse.

Così si capisce che ricchezza, salute, cultura sono beni particolari da ordinare al bene della collettività così che lo scambio e la comunicazione dei beni particolari promuova il bene di tutti.

Il bene comune, non è somma di beni particolari, ma armonizzazione e comunicazione di essi finalizzati fin dall’origine.

Al bene comune si subordina il bene dell’individuo inteso in senso individualista ed egoista, il quale così inteso non coopera al bene comune.

Piuttosto il bene individuale va armonizzato e coordinato al bene comune.

L’armonizzazione e la comunicazione delle attività personali sono compito dell’autorità politica la quale interviene con le leggi finalizzate al bene comune e devono ispirarsi alla legge naturale. Così l’autorità opera per il bene comune.

Tali dettami particolari, ottenuti dalla ragione umana prendono il nome di legge umana o positiva.

Nella comunità politica il fine è il bene comune, cioè il motivo stesso per cui si sta insieme nella comunità politica; la legge di conseguenza deve essere ordinata al bene comune.

Ordinare al bene comune è compito di tutto il popolo, oppure di un singolo rappresentante in sua vece.

Risultati immagini per vignette sul bene comune e individuale

Rispetto alla dimensione politica si deve affermare che la legge è frutto di un dettame della ragion pratica per regolare la vita di una comunità.

La legge naturale ci fornisce solo i principi con cui procedere, insufficienti a guidare tutta la vita umana.

Per questo è necessario arrivare a rispetto e controlli di leggi positive.

La ragione umana ci impone, partendo da questi principi il controllo e rispetto, in una cultura sociale adeguata al territorio e regolamentazioni più dettagliati.

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Disfattismo all’italiana

Il punto di partenza è un bell’articolo di Claudio Magris intitolato Che noia il disfattismo all’italiana e uscito sul Corriere della Sera.
La tesi di Magris è chiara: qualsiasi paese è afflitto da magagne, sciagure e storture. Occuparsene e denunciarle in modo circostanziato è, oltre che doveroso e patriottico, utile.
Ma tutto ciò è profondamente diverso dal ritornello autodenigratorio, cinico e intriso di falso moralismo, che oggi si configura come disfattismo all’italiana, vero vizio nazionale, e che incrementa i mali d’Italia. Seguono alcuni esempi tratti dal mondo che Magris conosce bene, quello dell’università, e un ragionamento sull’antipolitica.

Sono così profondamente d’accordo con quanto dice Magris che vorrei stamparlo in corpo 96 e farne un manifesto. Ma, temo, servirebbe a poco (e sì, sarebbe un gesto bizzoso). Provo ad aggiungere, invece, a quanto dice Magris un paio di chiavi di lettura che riguardano l’efficacia del “ritornello autodenigratorio” in termini di comunicazione, e i vantaggi che l’autodenigrazione offre a chi la pratica. Questo può offrire qualche strumento in più per distinguere a colpo d’occhio tra patriottica (e necessaria!) denuncia e cinico ritornello, e anche per disinnescare le tentazioni autodenigratorie di chi, magari, si sente un po’ sconsolato, ma è in sostanziale buonafede.

Prima di presentarvi il mio elenchino di funzioni e vantaggi, però, devo chiarire una cosa: salvo un’eccezione, che vedremo, di norma quella che Magris chiama “autodenigrazione” non viene applicata a se stessi in quanto individui. A essere denigrati, in realtà, sono sempre gli altri. E questo succede perfino quando il denigratore, travestendosi da anima bella che è vittima, suo malgrado di un inestirpabile male collettivo, usa l’artificio retorico di mettere anche se stesso nel mazzo dei denigrati ed esordisce con un ecumenico “noi italiani”.
Nelle espressioni di disfattismo all’italiana, quel “noi italiani”, implicitamente, sta però a significare “tutti gli altri italiani tranne me, la mia mamma, i miei amici, le altre anime belle che mi seguono e sono indignate quanto me”. E che parleranno al bar di quello che dico. Metteranno un “mi piace” su Facebook. Twitteranno e diffonderanno il ritornello del disfattismo, gustandosene le parti più saporite come se fossero caramelle, possibilmente senza azzardarsi a distinguere, ad approfondire, a verificare le fonti, insomma: a evitare la fallacia della generalizzazione.

Potente. L’autodenigrazione e il disfattismo fanno leva su intense emozioni primarie (rabbia, paura, disgusto) e per questo da una parte non ha bisogno di essere sostenuta da argomentazioni incontrovertibili, dall’altra è difficile da contrastare con un ragionamento articolato che abbia uguale intensità emotiva. Vantaggio: poca spesa (in termini di impegno analitico e dialettico) e grande resa in termini di coinvolgimento e memorabilità.

Semplice e definitiva. A criticare, diceva la mia nonna, sono bravi tutti, e demolire denigrando è molto più facile che ricostruire o costruire distinguendo e discutendo. Dopotutto, basta un po’ di dinamite verbale inserita nei luoghi comuni giusti, ed è fatta. Ma non solo: una furiosa demolizione è, nella sua immediata assolutezza, molto più semplice da capire che una laboriosa costruzione argomentata. Vantaggi: l’operazione si svolge in modo fulmineo, risulta comprensibile a tutti, è radicale e definitiva.

Conveniente e confortevole: chi denigra in una logica di disfattismo non ha bisogno di entrare nel merito di complesse distinzioni, o di assumersi onerosi impegni, o di formulare proposte o idee alternative che, a loro volta, potrebbero essere suscettibile di critiche. Vantaggio: si giudica senza dover affrontare il rischio di farsi giudicare, e ci si può, poi, adagiare in un confortevolissimo far niente.

Spettacolare. Lo sa chiunque lavori coi mezzi di comunicazione di massa: le buone notizie esercitano un impatto enormemente inferiore alle cattive notizie. Una rissa si fa guardare più di un dialogo pacato. L’inventiva diverte, e se sei noto per dirne di tutti i colori verrai invitato a partecipare ai talk show. Vantaggio: ci si conquista popolarità e si rimediano un sacco di inviti.

Autoassolutoria: questo è probabilmente l’unico caso in cui l’autodenigrazione comprende autenticamente anche chi la esercita, e autodenigrandosi dissolve qualsiasi possibile responsabilità individuale nel pentolone dello stigma collettivo. Se l’Italia intera è incapace, disonesta e inefficiente, nepotista e opportunista, beh, perché mai io, che sono italiano come voi, dovrei comportarmi in modo diverso? Vantaggio: “non è colpa mia, è colpa di un sistema perverso e immutabile”.

Il disfattismo incrementa i mali d’Italia, scrive Magris. Riconoscerlo è facile: un discorso disfattista non comprende distinzioni e non prevede vie di scampo realistiche e praticabili o controesempi virtuosi. Smontare il disfattismo è più difficile, ma saperlo individuare è già un buon primo passo. Per sfuggire al disfattismo all’italiana basterebbe rinunciare a tutti gli innegabili vantaggi che questo offre e, magari, dare un’occhiata a Il bello dell’Italia, un libro in cui 25 corrispondenti della stampa estera raccontano quel che apprezzano del nostro paese.

Fonte: Annamaria Testa nuovoeutile.it

Non possiamo far finta che le cose cambieranno se continuiamo a fare le stesse cose. Una crisi può essere una vera benedizione per qualsiasi persona, per qualsiasi nazione, perché tutte le crisi portano progresso. La creatività nasce dall’angoscia proprio come il giorno nasce dalla notte buia. È nella crisi che nascono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera una crisi supera se stesso, restando insuperato.
Chi incolpa una crisi dei propri fallimenti disprezza il suo talento ed è più interessato ai problemi che alle soluzioni. L’incompetenza è la vera crisi. Il più grande svantaggio delle persone e delle nazioni è la pigrizia con la quale tentano di trovare le soluzioni dei loro problemi. Senza una crisi non c’è sfida. Senza sfide, la vita diventa una routine, una lenta agonia. Non c’è merito senza crisi.
È nella crisi che possiamo realmente mostrare il meglio di noi. Senza una crisi, qualsiasi pressione diventa un tocco leggero. Parlare di una crisi significa propiziarla. Non parlarne è esaltare il conformismo. Lavoriamo duro, invece. Facciamola finita una volta per sempre con l’aspetto davvero tragico della crisi: il non voler lottare per superarla. A. Einstein

Con noi Libertà totale di essere se stessi.”

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Ue aiuta Regioni nella transizione tecnologica

Katainen,’specializzazione intelligente’ cambia la coesione Ue

Redazione ANSA

24 luglio 201719:16
Industria: Ue aiuta Regioni nella transizione tecnologica (foto: Ansa)
Industria: Ue aiuta Regioni nella transizione tecnologica

BRUXELLES – Dare un sostegno alle Regioni nell’accompagnare la transizione tecnologica delle loro industrie e puntare su nuovi settori some i big data e la bioeconomia per potenziare i partenariati fra regioni, anche di Stati diversi. Sono i due progetti pilota lanciati martedì 18 luglio dalla Commissione Ue per aiutare i territori europei a investire nei settori in cui sono competitivamente forti, la cosiddetta “specializzazione intelligente”, cercando così di accompagnare la globalizzazione. In parallelo, Bruxelles ha svelato una serie di iniziative per snellire la burocrazia e aiutare i territori nel creare ambienti favorevoli al business.

“Stati e Regioni si aspettano di avere fondi Ue per le loro infrastrutture”, ma è un “modo di pensare tradizionale” che “non prende in considerazione altri elementi fondamentali per la crescita”, ha dichiarato il vicepresidente con delega alla Crescita, Jyrki Katainen. “La specializzazione intelligente cambia il modo in cui la Commissione, e speriamo anche le Regioni, vedono la politica di coesione”, anche in vista dei probabili tagli al bilancio Ue per il post 2020, ha aggiunto. Secondo la commissaria alla Politica Regionale, Corina Cretu, un esempio positivo di utilizzo di fondi Ue per investimenti mirati sono le Marche, che hanno deciso di puntare sull’innovazione nel calzaturiero. “Apprezziamo molto lo sforzo della Commissione di concentrarsi sugli investimenti che dovrebbero fare le Regioni per avere vantaggi competitivi”, ha dichiarato Arnaldo Abruzzini, presidente di Eurochambres.

Con noi Libertà totale di essere se stessi.”

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cultura del saper fare

La crisi economica induce a ripensare un modello economico fondato esclusivamente sul profitto e su una concezione individualistica che, del vivere associato. Negli ultimi decenni l’economia ha svolto infatti un ruolo che è andato molto oltre il suo ambito di competenza, divenendo un vero e proprio modello culturale di riferimento.

Un clima culturale che si potrebbe definire la “cultura del saper fare”, idealmente contrapposta alla “cultura dell’utile”

Come spesso accade in tempi di crisi, le difficoltà possono facilmente trasformarsi in opportunità di cambiamento oppure possono condurre a ripetere nel tempo gli stessi errori che la crisi ha prodotto. È in questo frangente che dobbiamo esprimere il  potenziale innovatore - infatti a un clima culturale che si dovrebbe definire “cultura del saper fare”, si contrappone la “cultura dell’utile”.

Cosa accomuna tra loro un artigiano, un imprenditore, un medico e un buon cittadino? 

L’artigiano è la figura rappresentativa di una specifica condizione umana: quella del mettere un impegno personale nelle cose che si fanno.Il termine maestria rende bene questa attitudine: “la maestria” designa un impulso umano fondamentale sempre vivo, il desiderio di svolgere bene un lavoro per se stesso. E copre una fascia ben più ampia di quella del lavoro manuale specializzato; giova al programmatore informatico, al medico e all’artista; anche la nostra attività di genitori migliora, se è praticata come un ‘mestiere’ specializzato, e così pure la nostra partecipazione di cittadini” Dedizione e maestria hanno a che fare con il “prendersi cura” delle cose, delle persone e del bene comune.

Se si volessero individuare le implicazioni di una “cultura del saper fare” in termini di applicazione, si potrebbe dire che essa soddisfa tre bisogni, spesso trascurati all’interno delle società contemporanee, ma non per questo meno sentiti:

1) la partecipazione nella sua duplice accezione di “prendere parte” e “sentirsi parte”;

2) la possibilità di verificare i risultati delle proprie azioni;

3) la responsabilità, intesa anche come gratificazione derivante dal merito.

Con questi valori s’impara a misurarsi con le responsabilità e con il rischio di sbagliare. Ritorna in questo caso la “cultura del saper fare” propria dell’artigiano e soprattutto il fatto che l’esercizio della cittadinanza si apprenda attraverso la pratica quotidiana. L’esercizio dei diritti/doveri di cittadinanza è esso stesso un “saper fare” che trova il suo fondamento in un codice relazionale che unisce tra loro cittadini e istituzioni.

Il riferimento all’uomo artigiano riconduce inevitabilmente all’interno delle dinamiche del mondo imprenditoriale. Al di là delle analisi macro economiche, ciò che spaventa di più della crisi attuale è che essa inneschi una corsa al ribasso, a fronte dei tanti richiami all’eccellenza e alla qualità che vengono dagli esperti e da parte del mondo imprenditoriale.

Il mondo delle Pmi (imprese da 1 a 25 addetti) è depositario di un patrimonio di valori. . L’idea di fondo è che alla base delle attività imprenditoriali ci sia uno slancio che non può essere ricondotto solo alla logica del profitto. Secondo questa ipotesi la competitività delle Pmi deve essere collocata all’interno di una visione che si esprime in due dimensioni tra loro complementari: la prima consiste nella valorizzazione delle persone che guidano l’impresa e che vi lavorano apportandovi i loro ideali, legami e sistemi relazionali; la seconda guarda ai rapporti dell’impresa con l’esterno e alla sua capacità di fare rete.

Resta il fatto che il sistema imprenditoriale italiano è depositario di una cultura del “saper fare” che attraversa trasversalmente le grandi e le piccole imprese e che è attualmente messa in discussione dalla concorrenza con manodopera non specializzata, destinata alla grande produzione di massa e spesso estranea ad ogni forma di cultura d’impresa.

In Europa le Pmi costituiscono il 99 percento del totale delle imprese, il 9 percento delle quali si colloca nella fascia delle micro imprese (1-9 addetti). In Italia sono oltre 4 milioni, anche in questo caso concentrate nelle micro imprese.

La centralità che le Pmi ricoprono nel sistema imprenditoriale europeo ha spinto la Commissione a varare nel giugno del 28 lo Small business Act, con l’intento di favorire la cultura d’impresa delle Pmi sia a livello europeo che negli stati membri e di rimuovere gli ostacoli al loro sviluppo. A questo proposito, al primo posto tra le richieste avanzate dalle Pmi si colloca la semplificazione amministrativa, quale passaggio obbligato per il recupero di un rapporto con le istituzioni avvertite come distanti, se non addirittura ostili al mondo delle Pmi.

A seconda delle circostanze le dimensioni ridotte delle Pmi sono state interpretate sia come un elemento di forza che di debolezza. Nel primo caso, si fa riferimento alla loro struttura flessibile che, al contrario delle grandi imprese, le rende in grado di adattarsi rapidamente ai mutamenti e alle opportunità di autoimpiego che sono in grado di garantire in momenti di crisi occupazionale. Nel secondo, le ridotte dimensioni divengono un limite nel momento in cui rendono difficile l’accesso al credito, non forniscono adeguate posizioni professionali, non favoriscono il ricambio generazionale, l’internazionalizzazione e gli investimenti in ricerca e sviluppo.

In quest’ambito, il “saper fare” di cui le Pmi sono depositarie costituisce una risorsa che rischia di andare dispersa a causa dell’impossibilità di operare un salto dimensionale che le metta in grado di proiettarsi in uno scenario più vasto. Il saper fare infatti, come sottolinea Sennett, non ha un carattere esclusivo e deve essere condiviso attraverso la sua trasmissione da una generazione all’altra, mantenendo così vivo il legame con il territorio e le comunità di riferimento, attualmente messo in crisi dal fenomeno della delocalizzazione produttiva. La formazione, la creazione di reti, il sostegno agli investimenti in ricerca non sono che alcuni degli strumenti per la salvaguardia del “saper fare”.

Da questo punto di vista, non si tratta tanto di quantificare il “potenziale delle imprese”, quanto di riconoscere la dimensione dell’economico, nell’insieme dei rapporti sociali e difficilmente distinguibile da essi. L’economia contemporanea, attraverso l’artificio del mercato, ha fatto dell’agire economico un’astrazione, dimenticando tra l’altro che nello svolgere bene il proprio lavoro si acquisisce una sorta di valore aggiunto non quantificabile in termini economici, ma che chiama in causa la qualità della vita dell’intero corpo sociale e, perché no, la felicità.

“Con noi Libertà totale di essere se stessi.”

Da soli non ci si salva !!  

  con il buonsenso possiamo costruire le condizione per condivisione e meritocrazia.

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Cerchiamo volontari per costruire un pezzo di mondo migliore, una piccola Comunità impegnata ad inventare nuovi modi di pensare, abitare e vivere

Dalle visioni alle strategie, dalle strategie ai progetti.

Organizzazione – tel. mob. 347-4629179  e-mail : comitato@trazzeramarina

 

 

 

 

Notizie da Unione Europea – Tutti si muovono ! Noi ? ? . . . . . .

Trento, 77% imprese usa iperammortamento

Emerge dall’Opinion Panel della Fondazione Nord Est

Fonte Redazione ANSA MILANO

21 luglio 201721:00
ANSA) – MILANO, 21 LUG – Un terzo delle imprese trentine ha già approfittato degli incentivi previsti dal piano del governo Industria 4.0 o intende farlo entro la scadenza. È quanto emerge dall’Opinion Panel condotto in queste settimane dalla Fondazione Nord Est e sottolineato oggi dalla Confindustria di Trento. L’indagine è stata realizzata su un campione di 619 imprenditori, rappresentativo del tessuto economico delle tre regioni, stratificato per regione, dimensioni e settore. La grande maggioranza delle aziende trentine interessate agli incentivi predilige il sostegno dell’iperammortamento (77,8%); vengono a seguire il Credito d’Imposta per ricerca e sviluppo (44,4%) e il Patent Box (11,1%). In tutti i tre i casi si tratta del dato piu’ alto dell’intero Nordest.(ANSA).

Ue, Industria 4.0 tappa fondamentale ma restano criticità

Bene Scuola digitale su competenze giovani ma rischi efficacia

Fonte Redazione ANSA BRUXELLES

05 giugno 201711:21
ANSA) – BRUXELLES, 10 MAG – Le strategie per ‘digitalizzare’ l’Italia, fanalino di coda dell’Ue, dal ‘Piano industria 4.0′ a alla ‘Scuola digitale’ vanno nella “direzione giusta” ma restano diversi “punti critici” legati all’efficacia, alla sistematicità e alle scarse risorse disponibili. Le iniziative politiche “intraprese nel corso del 2015-2016″, quindi, “iniziano a dare frutti”. E’ quanto emerge dalla relazione annuale della Commissione Ue sui progressi nel settore digitale in Europa (Edpr), che fa seguito alla pubblicazione a marzo dell’indice digitale (Desi), che ha confermato, nonostante alcuni miglioramenti, l’Italia al 25esimo posto tra i 28 per livello di digitalizzazione. “Il piano italiano Industria 4.0 è una tappa fondamentale verso il raggiungimento dell’obiettivo rappresentato dalla progressione del settore industriale italiano nella catena globale del valore, restano tuttavia alcuni punti critici”, si legge nel rapporto di Bruxelles.(ANSA).

Industria: Ue aiuta Regioni nella transizione tecnologica

Katainen,’specializzazione intelligente’ cambia la coesione Ue

Fonte Redazione ANSA

24 luglio 201719:16
Industria: Ue aiuta Regioni nella transizione tecnologica (foto: Ansa)
Industria: Ue aiuta Regioni nella transizione tecnologica

BRUXELLES – Dare un sostegno alle Regioni nell’accompagnare la transizione tecnologica delle loro industrie e puntare su nuovi settori some i big data e la bioeconomia per potenziare i partenariati fra regioni, anche di Stati diversi. Sono i due progetti pilota lanciati martedì 18 luglio dalla Commissione Ue per aiutare i territori europei a investire nei settori in cui sono competitivamente forti, la cosiddetta “specializzazione intelligente”, cercando così di accompagnare la globalizzazione. In parallelo, Bruxelles ha svelato una serie di iniziative per snellire la burocrazia e aiutare i territori nel creare ambienti favorevoli al business.

“Stati e Regioni si aspettano di avere fondi Ue per le loro infrastrutture”, ma è un “modo di pensare tradizionale” che “non prende in considerazione altri elementi fondamentali per la crescita”, ha dichiarato il vicepresidente con delega alla Crescita, Jyrki Katainen. “La specializzazione intelligente cambia il modo in cui la Commissione, e speriamo anche le Regioni, vedono la politica di coesione”, anche in vista dei probabili tagli al bilancio Ue per il post 2020, ha aggiunto. Secondo la commissaria alla Politica Regionale, Corina Cretu, un esempio positivo di utilizzo di fondi Ue per investimenti mirati sono le Marche, che hanno deciso di puntare sull’innovazione nel calzaturiero. “Apprezziamo molto lo sforzo della Commissione di concentrarsi sugli investimenti che dovrebbero fare le Regioni per avere vantaggi competitivi”, ha dichiarato Arnaldo Abruzzini, presidente di Eurochambres.

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