Vi sono almeno due effetti di tipo economico che, a livello personale e di comunità, si creano grazie a chi si prende cura dei beni comuni:
1) A livello personale: maggiore capacità d’acquisto
Chi si prende cura di un bene comune lo fa innanzitutto per aumentare la qualità della propria vita: si sta meglio in un luogo più curato, dove ci si dà una mano l’un l’altro, in cui ci si conosce e si sviluppano relazioni sociali e attività a cui diamo valore. Nell’ultimo decennio gli interventi dei cittadini si sono spostati sempre più da un generico interesse per la cura di beni comuni “naturali” (quali l’acqua, aria, ambienti e loro fauna e flora), verso beni in degrado o abbandono, sia in contesti urbani che rurali. Si tratta dei cosiddetti “anticommons”, ossia beni di proprietà di chi, detenendo i diritti di veto su quei beni, li può anche non utilizzare e abbandonare al degrado (F.I. Michelman, Ethics, economics and the law of property, «Nomos series», 1982, 24, 1). Ciò può creare un utilizzo “non ottimale”, con conseguente scarsa/nulla “funzione sociale” dei beni da parte di quei proprietari (anche in contraddizione con quanto è riconosciuto dall’art 42 della nostra Costituzione) che talora condannano i loro stessi beni ad una tragedia: la “tragedia” degli anticommons sta proprio nel fatto che scarsi incentivi o rendimenti o investimenti portano progressivamente all’abbandono e degrado di numerosi beni (si pensi ai 5 milioni di immobili abbandonati in Italia, secondo una stima di Legambiente).
Così, soprattutto con l’inizio della crisi economica dello scorso decennio, molti cittadini attivi si sono presi cura di alcuni “anticommons” per lo più di proprietà degli enti locali, con l’effetto tra l’altro di aumentare la qualità della propria vita, a parità di reddito. Perché curando i beni che, nei loro territori, sono abbandonati o sottoutilizzati, favoriscono negli stessi luoghi lo svolgimento di attività di tipo sociale, ludiche, ricreative, culturali e di solidarietà di vicinato. L’effetto è che a parità dei loro redditi (se non addirittura in diminuzione) essi aumentano, di fatto, per tale via, la capacità di acquisto delle loro entrate. Se infatti ho, per esempio, una ludoteca per i bambini della strada in cui vivo, una biblioteca aperta sino alle ore 24 per gli studenti, uno spazio verde in cui trovarmi con amici e parenti, un corso di yoga o di lingue nelle ore serali della scuola di mio figlio: tutto questo equivale ad una capacità di spesa maggiore a parità di reddito, in quanto non è necessario spendere per quelle attività e spazi che i cittadini stessi organizzano, perché i cittadini ne sono direttamente produttori e consumatori. Essere cittadini attivi, in questo senso, può essere conveniente! Quindi avere beni comuni curati dai cittadini, significa anche aumentare il benessere a parità di entrate. E questa è certamente una prima “ricchezza” che questi cittadini creano: una “ricchezza” per loro stessi e per chi vive ed utilizza quei beni comuni, attraverso ciò che era “sottoutilizzato” o abbandonato, rendendolo fruibile a tutti e quindi “valorizzandolo”.
2) Le esternalità positive dei beni comuni: l’indotto e il valore dell’area in cui si vive.
Ma così facendo, i cittadini che operano insieme sui territori creano una ricchezza che non è più quindi solo quella personale. Bensì collettiva, della comunità. Ed è proprio in ciò che sta un altro tipo di ricchezza che si crea sui territori. Il bene comune rigenerato, rivitalizzato, acquista indubbiamente un valore maggiore perché tolto dal degrado e dall’abbandono. Ma non solo. Un’area in cui si cura l’ambiente acquista anche un valore maggiore per tutti. Si creano quelle che gli economisti chiamano “esternalità positive” dei beni comuni. Per capirci: un immobile “vale” di più in un’area che non è degradata, in cui prima si spacciava o che era pericolosa; se invece in quei luoghi i cittadini ci vivono e si ritrovano (anziché andare altrove), organizzano eventi, rigenerano spazi, allora anche le case in quell’area “valgono” di più, così come le attività commerciali che già vi sono o nuove attività che possono avviarsi in quei quartieri/aree (per esempio bar o sale cinema, teatro, biblioteche, mostre, laboratori artigianali, riparazione di bici e così via).
Le esternalità positive dei beni comuni sono “immateriali” come la fiducia reciproca, il senso di “sicurezza” dei luoghi in cui si vive, l’inclusività: ma questi aspetti creano un valore maggiore anche dei beni “materiali” (spazi urbani, abitazioni, attività commerciali) perché attraverso la cura dei beni comuni, tendono ad acquisire maggiore “valore” quei luoghi, non solo per chi ci vive (valore d’uso) ma anche per gli altri (valore di scambio). Quei luoghi, in sintesi, “valgono” di più perché sono “grumi” di relazioni sociali positive. E’ ciò che crea capitale sociale e benessere delle comunità. E questi aspetti non sono quasi mai resi “visibili” e sono difficilmente “quantificati”. Ma è proprio l’insieme di queste esternalità positive che costituisce il “seme” di un nuovo tipo di sviluppo locale di quei territori: sviluppo sociale ed economico tra loro strettamente connessi. Anzi: uno sviluppo sociale connesso ai beni comuni che, con le sue “esternalità positive”, crea anche un nuovo tipo di sviluppo economico locale. Non viceversa!
Fonte: labsus
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