Fare squadra per creare competenze

Perché oggi sempre più aziende si pongono l’interrogativo se valutare le competenze rappresenti realmente un’opportunità?

Arrivare a valutare e, in prospettiva, a certificare le diverse professionalità presenti nelle organizzazioni, presuppone che prima di tutto si imposti un sistema di mappatura ed individuazione delle competenze che non è sempre così facile ed immediato da realizzare.

Perché le imprese la scuola la famiglia dovrebbero investire su questo frangente con impegno collettivo rilevante in termini di risorse e tempo?

Alcune risposte sicuramente le ritroviamo nel contesto socio-economico in cui ci troviamo, altre sono più proprie del sistema valoriale e delle specificità delle singole imprese e scuole del territorio ove risediamo.

Per le aziende e le scuole che si muovono nello scenario della new economy  devono affrontare le sfide della competizione globale, l’investimento sulle competenze diventa un’esigenza vitale ed un fattore di successo, per il mantenimento duraturo nel tempo di un vantaggio competitivo e la generazione di un reale differenziale strategico rispetto ai concorrenti.

In uno scenario in cui solo flessibilità e processi di adattamento permettono alle organizzazioni di fronteggiare le incertezze e le diverse condizioni dei mercati, è evidente che diventa sempre più importante e strategico riconoscere e valorizzare la dimensione dinamica a disposizione dell’organizzazione: l’apporto professionale dell’individuo, il capitale intellettuale rappresentato dalle conoscenze e possedute dalle persone e dalla capacità individuale di acquisire, governare e applicare tale patrimonio.

Oggi, nella società della conoscenza, le risorse economiche di base non sono più soltanto il capitale finanziario o le risorse  naturali, ma anche, o forse soprattutto, i saperi, la creatività, le relazioni e tutto quello che viene definito capitale umano e intellettuale. L’UnioneEuropea, con la creazione dell’EQF, ha messo al centro le competenze e la formazione, considerando lo sviluppo delle persone un asset strategico per il rilancio economico dei diversi paesi.

Se lo sviluppo delle persone viene considerato il motore dell’economia a livello europeo, questo è ancora più vero per le aziende e la scuola, come quella a cui appartengo, che operano nel settore dei servizi ed in cui il valore percepito dai clienti non è legato tanto ad un prodotto, quanto alla professionalità delle persone che forniscono il servizio.

ingratitudine… Abitudine ormai molto diffusa………

Quando proviamo ri­conoscenza per qualcu­no?

A primo impatto direm­mo che la proviamo verso tutti coloro che ci aiutano o ci hanno aiutato, ma non è così !

Chi ama non la prova. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e avere: i conti sono sem­pre pari.

Solo quando l’amore fini­sce si riapre la contabilità e ciascu­no scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto.

Anche fra innamorati ci so­no dei momenti in cui un dei due ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche rico­noscenza.

Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone che ci fanno del bene spon­taneamente.

Esempio - chi si getta in acqua per salvarci rischian­do la vita, chi soccorre in un inci­dente, chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto il nostro talento i nostri desideri nel campo del lavoro ed altro, della professione che espletiamo per merito di qualche altro, quando siamo arrivati, gli siamo de­bitori.

La riconoscenza è perciò nel­lo st­esso tempo un grazie e il ricono­scimento dell’eccellenza morale della persona che ci ha aiutato.

Quando proviamo questo senti­mento, di solito pensiamo che dure­­rà tutta la vita, invece spesso ce ne di­mentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene e ce l’ho dimentichiamo, allo­ra la nostra è ingratitudine.

La chiamerei una ingratitudine legge­ra, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere ricono­scenti, provano del rancore, del­l’odio verso i loro benefattori.

Vi so­no allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri o dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi.

Da dove nasce questa ingratitudine cattiva?

Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro suc­c­esso sia esclusivamente merito del­la propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati.

Così negano l’evidenza, aggredisco­no il loro benefattore. E quanti so­no! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingrati­tudine malvagia.

Cerchiamo di correggere vicendevolmente questi atteggiamenti purtroppo molto diffusi nella nostra vita sociale. Per fare questo bisogna discuterne e portarli alla luce con dei professionisti che sanno trattare queste problematiche sociali.

Il nostro gruppo e alla ricerca  continua di figure professionali per queste affrontare queste ed altre problematiche in volontariato sociale promozionale.

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Compiacionismo “Una storia infinita !!!…..”

C’è una categoria di uomini e donne, che veramente non capisco !

La loro esistenza trova un senso nel riempire la giornata su facebook  facendo commenti  tra il fintamente compiaciuto e lo smaccatamente autopromozionale. Scrivono solo cose carine. Non si incazzano mai, non hanno mai un’opinione disallineata dalla media. Dicono solo cose ovvie, banali.

Interessi sul sociale e condivisione zero, mai prendere un punto di vista portarlo avanti discuterlo ragionevolmente, un principio di qualsiasi tipo, una convinzione profonda.

Sono d’accordo su tutto e con chiunque. Come la famosa frase “Basta che sia donna e che respiri”. Lasciano complimentose tracce ovunque, peggio delle lumache.

Si complimentano con tutti. E’ tutto un “ciao cara, come va oggi” e “complimenti, sei in ottima forma”. Ostentano una millantata familiarità e vicinanza affettiva con chiunque si spera si possa tirare qualcosa fuori per s’è, che si parli di ricette per fare la torta di mele, delle avvincenti cronache del posto di lavoro, degli sconvolgenti amorazzi in chat piuttosto che di qualsiasi argomento che ci assilla.

Non hanno mai una parola di disappunto, sono sempre fintamente gentili.

Passano per salutare, come affettuosi vicini di casa.

Comportarsi in modo da compiacere, cioè in modo da cercare di soddisfare chi si ha di fronte mostrandosi sempre vicino ai suoi gusti e alle sue idee senza mai contrastarlo, anche se magari da soli si agirebbe o si penserebbe diversamente.

Dirimere questi atteggiamenti e cosa molto ardua e difficile, ci vuole un’organizzazione, collaborazione coinvolgimento sociale e scolastico per cambiare questi atteggiamenti. Una cosa è certa !! s’è non si inizia, sicuramente non si riesce a cambiare questo malcostume generale.

 

Creare caratteri decisionisti in questa società di taker

Gli uomini che sono ammirati per il loro carattere decisionista, del loro carisma, del fatto che sanno sempre cosa fare, usano un metodo infallibile.

Prendono sempre decisioni, si abituano a scegliere, si avete capito….. scelgono, da quando si svegliano la mattina a quando vanno a letto, sono decisi ad essere determinati, scegliendo dalla cosa più banale alla cosa più importante.

Facciamo qualche esempio….quando si alzano vanno in bagno decidono di impiegarci tot minuti, scelgono la camicia, un maglione, o l’abito, il giubbotto, dando valore ai loro gusti consoni alla loro personalità.

Lo fanno senza avere titubanze, senza dire “ma non saprei, che dici…. mi sta bene questo o quello, oppure e meglio il blu o l’azzurro… loro non alimentano la confusione, l’indecisione, si danno un paio di alternative e poi….. scelgono.

Oppure se la sera vogliono uscire non fanno………

Questa sera andiamo al cinema o al ristorante?, ” ma non saprei non so, se andiamo al ristorante cosa mangiamo pesce o carne?, oppure pizza, andiamo al cinema? …. e che film? di che tipo?….ecc,ecc, elencando mille possibilità offriamo alla mente troppe alternative, questo ci rende immobili, e ci porta diritti a rimanere a casa.

E altamente deleterio chiedere agli altri di decidere per noi, crediamo che prendere piccole decisioni non sia importante, e che la forza del decidere si vede nelle grandi questioni della vita, invece il muscolo della decisione si sviluppa anche in quei momenti, l’allenamento avviene in quegli istanti fondamentali.

Ora io ho fatto solo degli esempi, ma se ci pensiamo veramente sono moltissime le situazioni di questo tipo che viviamo nel quotidiano.

Ma sarà sempre vero che non scegliamo?

In verità noi scegliamo sempre, anche quando pensiamo di non prendere decisioni, perché anche in quel caso abbiamo deciso, abbiamo deciso di non scegliere.

Con la differenza che quando scegliamo di non scegliere, i cambiamenti prenderanno  una direzione diversa da quella che avremmo voluto noi, e molte volte questo avviene per paura.

Questa paura nasce dal fatto che l’idea di sbagliare, l’insuccesso, la brutta figura sono tra gli spauracchi più temibili della nostra società, in cui l’unica possibilità è il successo.

Imparare a decidere significa prima di tutto imparare ad accettare di sbagliare, visto che l’errore è contemplato nell’imparare, e alla parola fallimento gli abbiamo dato un significato troppo importante.

Il fallimento non esiste, esistono le esperienze, e nulla è davvero perduto quando si sbaglia, quando si fallisce un tentativo, si proprio così e solo un tentativo….

E che qualunque sia la decisione inadatta che abbiamo preso, siamo sempre in tempo a decidere di cambiare e agire diversamente.

Prendere una buona decisione non è la capacità di leggere il futuro.

È piuttosto la capacità di ascoltarci e sentire cosa è meglio per noi, senza farci influenzare da paure e timori del mondo esterno.

E quando capita di non riuscire a trovare dentro di sé le risposte, possiamo sempre informarci, chiedere, leggere, studiare, fare in modo di riuscire ad avere più dati possibile per portare la percentuale di errore ai minimi termini.

Chi è a capo di una qualsiasi organizzazione, che sia industriale, politica, scientifica conosce il valore di avere attorno a sé persone che sanno consigliare, informare, offrire una visione diversa, un’altro punto di vista.

Se sapremo mettere a frutto questi metodi, decidere non sarà più un problema.

Gli uomini sono stati creati per vivere nella collettività e, per potersi sentire amati e compresi, non soffrire di solitudine o di emarginazione, è necessario che ci percepiamo come parte di un gruppo.
L’isolamento porta con sé l’inevitabile sofferenza del sentirsi soli ed abbandonati, con tutte le frustrazioni che ne conseguono.
Lo scopo del comitato spontaneo è proprio quello di provare a far uscire dall’isolamento coloro che lo vivono e che vogliono in qualche modo abbaterlo, offrendo un mezzo di dialogo spontaneo e di semplice condivisione.

Secondo il filosofo Grant esistono tre profili umani a cui corrispondono altrettanti stili di azione:
1) il giver, colui che antepone il dare al ricevere;
2) il matcher, colui che, nel rapporto dare-avere punta al pareggio;
3) E il taker, colui che prende e basta.

 

 

 

Accondiscendenza, comunicazione, trasparenza, collaborazione etc.

Le basi del nostro carattere si pongono nella nostra infanzia, li vanno cercate le cause..

 Amore negato innanzitutto ,e di riflesso, paura di perdere quel po’ che già si ha.

Da adulti, tutto cambia e si maschera come forma di disponibilità eccessiva verso gli altri, e con l’incapacità di dire di no.

Si può anche diventare schiavi delle “elemosine” e dell’amore altrui.

Accondiscendenza  e’ in molti casi una forma di rinuncia che spesso non ci soddisfa e che riconosciamo come sintomo di nostra debolezza.

 Se la soddisfazione che ne segue non e’ reciproca l’accondiscendenza potrebbe generare un senso di vittimizzazione e di rabbia.

 Avere sempre il coraggio e la forza di spirito per prendere le decisioni e dare le risposte che soddisfino gli altri e noi stessi.

Una comunicazione corretta è soprattutto quella che si rivela efficace e non è manipolativa. Come quella che si dovrebbe intrattenere in un ambito familiare e quotidiano, ben diversa da quella a volte scorretta insegnata ai venditori, o da quella volta ad ottenere certi effetti, adottata dagli avvocati, politici, banche etc……

E’ richiesta trasparenza,  collaborazione, democrazia e anche certe strategie terapeutiche vanno usate solo eccezionalmente e a dosi omeopatiche,  perché l’obiettivo è far ampliare la coscienza, insegnare a maneggiare gli eventi della vita e ad essere capaci di facilitare soluzioni adatte per l’altro.

Nell’analizzare un processo comunicativo-relazionale si deve riferirsi a un episodio problematico e individuare il tipo di rapporto che si è instaurato tra interlocutori. La comunicazione tipica di situazioni che vanno ben comprese per poi saperle gestire adeguatamente: si può verificare che non esiste alcun problema ma solo un semplice scambio verbale; oppure c’è la nostra percezione di un problema personale o da attribuire all’altro.

Nell’area dei conflitti dove a soffrire sono entrambe le persone entrano in gioco interessi, gusti, valori, opinioni, cambiamenti.

Possono suscitare per reazione un attacco difensivo, ad esempio le varie forme dell’aggressività, le critiche non costruttive, il mimetizzarsi per nascondere, il ritirarsi, il proporsi di suscitare compassione, ecc. Un attacco competitivo è un’inevitabilità biologica. Ad esempio l’antagonismo strategico di due colleghi di lavoro che aspirano alla promozione. Si deve valutarlo e imparare a reggerlo nei migliori dei modi. L’attacco di sfruttamento avviene ad esempio quando qualcuno ci vuole vendere o regalare qualsiasi cosa pur sapendo cosa in realtà sta sotto l’offerta, e si deve vigilare ed imparare a difendersene.

Anche in una relazione di coppia conta l’arte di farsi capire e di coinvolgere l’altro nella comprensione del proprio problema. Nei conflitti di interesse si deve essere abili a negoziare con diplomazia. Il risolvere conflitti di valori ad esempio è richiesto nelle società multiculturali. Il conflitto estetico riguarda i gusti e quello etico valori che fanno parte dell’ identità stessa di un persona. Il conflitto di opinioni richiede una discussione di tipo filosofico.

Si dovrebbe anche saper vedere dietro le emozioni negative: ad esempio cosa sta sotto la rabbia? Perchè qualcuno tratta male le persone? Come condividere percorsi di pensiero senza entrare nella spirale o il circolo vizioso delle reciproche sopraffazioni? Individuato il problema relazionale si stabiliscono quali persone vi sono coinvolte e l’evento da capire esaminandolo nel suo conteso storico-geografico e sotto la forma usuale di dialogo a botta e risposta. Si prova a “metterlo in scena” e si verificano quali sono le reciproche percezioni per arrivare a una diagnosi fenomenologica assegnando a quella situazione un titolo che orienti la sua definizione e di conseguenza le emozioni e poi le azioni. E’ importante la correttezza del titolo dato all’evento conflittuale per poi gestirlo

Tuttavia si ricordi che non c’è alcuna garanzia di poter cambiare l’altro, ma a volte cambiando l’offerta s’ induce anche a un cambiamento di rapporto con un aggiustamento di cuore, mente e istinto.

Molti conflitti sono dovuti al fatto che si parla solo delle azioni superficiali e mai delle proprie emozioni – forse perché  non ci si fida – e della propria anima – forse perché  è invasa dai propri fantasmi – per cui non si stabilisce mai un’intimità profonda né una dinamica affettiva. Si pretende di avere sempre e comunque ragione, manca uno scambio veramente costruttivo e si cade nell’apatia o nella noia. Si devono saper gestire offerte,  richieste, rifiuti, ecc. senza creare sensi d’imbarazzo.

A volte il problema non è di relazione ma di non saper vedere il proprio mondo interno per reinquadrare il problema sul piano culturale, spirituale, istintuale, e secondo le proprie esigenze. Con il rischio di rimanere passivi e dipendenti l’uno dall’altro.

Dopo aver condensato in una frase il tema del dissidio si prosegue in forma dialogica . In prevalenza riformulatoria  e non direttiva, per uscire da proprie personali interpretazioni. Oggi è questo l’unico sistema con possibilità risolutive, adottato pure nel campo della psicologia dell’educazione, per gl’ inevitabili problemi di relazione che sorgono in ambito scolastico.

Nella nostra epoca è sempre più difficile, nel privato come nel pubblico, parlare di stati affettivi o avviare a forme operative che ne facilitino l’autoeducazione. Non ultima causa è la povertà del nostro linguaggio per descrivere vissuti e stimolare l’ espressione di quelli altrui, ma in profondità e anche se non esplicitati. A tale scopo è utile uno schema che descriva le principali categorie di emozioni in base anche al livello di intensità: alto, medio e basso.

 Individuare l’intenzione è il primo problema della comunicazione; e nelle situazioni di disagio “capire l’altro” è il primo strumento operativo, che si svolge attraverso alcuni passaggi fondamentali da affrontare con coerenza e sincerità d’animo. 

Evoluzione ed identità generazionale

La condizione di giovinezza è capace di assumere il proprio tempo in modo inusuale, costruendo una sorta d’identità generazionale.

Questa costruzione pare faticosa e incerta: debole è il sentimento di futuro, debole la densità e la forza della consegna degli adulti.

Quali percorsi prende la ricerca delle giovanissime e dei giovanissimi?

Quale l’esercizio di abilità per vivere il proprio tempo?

Intrecciare gli accadimenti della vita personale, le scelte e le transizioni nella connessione partecipe del sociale.

Il nostro pare essere “tempo opportuno” per riconquistare un respiro “di generazione in generazione“, nel quale riprendere il rapporto profondo con la propria filialità, non con la relazione con l’altro, la consegna di un futuro migliore è la capacità di inizio.

Questo chiede di guardare alla famiglia e alla scuola come luogo di soluzione, alla conoscenza come esperienza del tempo, alle modalità per ritrovare l’infanzia e, insieme, la capacità di consegnare e di lasciare.

Questo richiede un esercizio di pensiero, una capacità di presenza, una modalità di cittadinanza “per generazioni“: è la ricerca di questo la si ottiene frequentandosi e confrontandoci, impegnandoci e costruendo una prospettiva pedagogica ed etica.

Creare Economia

Accettare condividere scelte e consigli per migliorate, la serietà, la condivisione, non si trovano al supermercato.

Il 95% di tutti i problemi umani ha origine da una mentalità negativa. Questa cifra include caratteristiche come timidezza, contrasti in famiglia, fallimento aziendale, cattiva memoria, tensioni, infelicità, preoccupazione, disinformazione, pregiudizi, mancanza di collaborazione e condivisione, ansie ecc.

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Possiamo fare qualcosa al riguardo condividendo e programmando.
Siamo tutti una mente con un corpo, non un corpo con una mente!
Se comprendiamo questo avremo più padronanza di noi stessi.
Il coworking è uno stile lavorativo che coinvolge la condivisione di un ambiente di lavoro, spesso un ufficio, mantenendo un’attività indipendente. A differenza del tipico ambiente d’ufficio, coloro che fanno coworking non sono in genere impiegati nella stessa organizzazione. Attrae tipicamente professionisti che lavorano a casa, liberi professionisti o persone che viaggiano frequentemente e finiscono per lavorare in relativo isolamento. L’attività del coworking è il raduno sociale di un gruppo di persone che stanno ancora lavorando in modo indipendente, ma che condividono dei valori e sono interessati alla sinergia che può avvenire lavorando a contatto con persone di talento.
Con volontà ed impegno,  si può guidare la nostra Mente Creativa ad aiutarCi a risolvere i problemi, prendere le decisioni giuste, creare modi e mezzi per condividere, Creare economia per tutti.

L’innovazione sociale rivolta a produrre valore è meritocrazia.

L’innovazione sociale richiede un approccio “profondo”. Il suo fine non è la semplice evoluzione del contenuto di un intervento rivolto ad una determinata categoria di portatori di bisogni, quanto del processo attraverso cui le politiche e le azioni sono concepite, realizzate, valutate e governate.

 Il risultato atteso da una innovazione sociale è dunque la modificazione stabile dei comportamenti e delle relazioni di un insieme ampio di attori – istituzionali e non –finalizzata a rispondere ad un bisogno in modo migliore e più sostenibile.

Questo aspetto è colto bene da un’altra definizione ampiamente citata in letteratura: “Nuove soluzioni (prodotti, servizi, modelli, mercati, processi, comportamenti, riconoscimenti, etc.) che simultaneamente rispondono ad un bisogno sociale (più efficacemente di una soluzione già esistente) e portano a nuove o rafforzate capacità, relazioni e ad un miglior uso delle risorse. L’innovazione sociale risponde alla società, ed al contempo ne rafforza la capacità di azione.

Al centro della social  innovation  vi è dunque l’evoluzione del processo con cui si affronta un bisogno, come condizione per giungere ad un “prodotto” (una risposta) realmente diversa e maggiormente coerente.

 Questo approccio può essere visto a diversi livelli di profondità, dalla più immediata risposta ad una precisa domanda sociale, non risolta né dal mercato, né dalle istituzioni, ma dalla più ampia azione “sociale“, rivolta ad affrontare problemi più generali legati all’uso delle risorse, quali la sostenibilità, la giustizia intergenerazionale, il significato di crescita e benessere, meritocrazia.

Poco o nulla di quanto evocato può accadere spontaneamente:  occorre costruire condizioni di avvicinamento e di convergenza fra una pluralità di attori, in un contesto di lealtà e fiducia reciproca.

Il lavoro sottopagato non è un dono (professionalità e competenza)

Il lavoro sottopagato distrugge la professionalità, ma la possibilità di donare il proprio lavoro (non regalare o svendere) ti permette di intercettare opportunità e creare interazioni difficili da riprodurre in altro modo.

Tutto questo può essere visto come una provocazione nei confronti dei professionisti. Ma il sociale è anche questo: nuove frontiere da attraversare, nuovi orizzonti da scoprire. Il lavoro sottopagato è una cosa, il lavoro donato è un’altra: nel primo caso il professionista deve reagire combattendo il malcostume.

Nel secondo caso, invece, può cogliere le opportunità per farsi notare. Per dare una marcia in più alla propria attività.

Chi necessita delle professionalità deve saper distinguere l’improvvisazione dalla vera professionalità.

Solo chi dona può ricevere. Siete d’accordo?

Stato d’animo – Immedesimazione – Empatia

C’è qualcosa di molto nobile in questi atteggiamenti di chi non dà mai nulla per scontato, ma sottopone tutto a critica e tenta costantemente di risalire alle cause, ai fondamenti di ogni aspetto della conoscenza: riflettere sulla realtà che ci circonda è somma realizzazione della nostra natura di esseri razionali.

Eppure questo raro tipo di “uomo analitico” viene spesso considerato noioso, fastidioso, dotato di scarso senso pratico con il suo costante meditare, chiudersi in se stesso, quindi è osteggiato e discriminato.

Il padre spirituale dei “guastafeste”, in fondo, è Socrate, che tormentava i cittadini ateniesi invitandoli a non reputare mai nulla a priori acquisito e a non piegarsi passivamente al luogo comune.

Il luogo comune è esattamente l’opposto dell’atteggiamento critico: è il regno dell’approssimazione, della banalità, della meccanica accettazione di qualsiasi concezione, opinione o comportamento solo perché “si fa e si dice così ed è così da sempre”.

Tutto è subordinato a un’etica dell’utilitarismo, per cui è veramente buono solo ciò che può servire, ciò che è efficace nell’immediato: interrogarsi sulle proprie azioni non serve a nulla, anzi, sottrae tempo prezioso al vivere quotidiano.

Il pensiero come riflessione razionale è disattivato, la fastidiosa voce della coscienza critica zittita: resta solo una funzione mentale meccanica che accetta e fa proprie le comuni credenze per poi immediatamente convertirle in atti concreti, poco più che bruto istinto animale.

Ciò detto, naturalmente è impensabile condurre un’intera vita di pura riflessione: analizzare e scomporre ogni cosa in una specie di eterna, ossessiva ricerca dei fondamenti significherebbe l’impossibilità di qualsiasi azione immediata, persino la più semplice e banale.

Il luogo comune tende ad “impossessarsi” di determinati concetti e a sottrarli al procedere analitico in quanto ritenuti scontati, ovvi; ora, l’ovvietà è uno dei principali nemici dell’uomo dotato di lucido intelletto, perché prelude spesso a pressappochismo e qualunquismo mentali.

L’ovvio è semplice nel senso di facile, comodo, ma non è Il semplice: l’assolutamente semplice è l’obiettivo ultimo e forse irraggiungibile dell’analisi, l’ovvio nemmeno la fa iniziare.